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06 2007

Patologie dell’iper-espressione

Franco Berardi aka Bifo

Disagio e repressione

Il pensiero antiautoritario del ventesimo secolo è stato direttamente o indirettamente influenzato dalla nozione freudiana di repressione, sulla quale è incentrato il suo scritto Civilisation and its discontents (Disagio della civiltà, in italiano).

“…non può mancare di colpirci l’analogia tra il processo di incivilimento e  l’evoluzione lipidica del singolo. Altre pulsioni sono indotte a spostare le condizioni del loro soddisfacimento, a trasferirle su altre vie, processo che nella maggioranza dei casi coincide con la sublimazione (della meta pulsionale). …è impossibile ignorare in qual misura la civiltà sia costruita sulla rinuncia pulsionale, quanto abbia come presupposto il non soddisfacimento (repressionem rimozione) di potenti pulsioni. Questa frustrazione civile  domina il vasto campo delle relazioni sociali; sappiamo che è la casua dell’ostilità contro cui tutte le civiltà debbono combattere. “ (Freud: Das Unbehagen in der Kultur, capitolo 3)

La repressione è dunque in Freud considerata un tratto ineliminabile, costitutivo della relazione sociale. A metà del ventesimo secolo, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il pensiero critico europeo si interroga sul rapporto tra dimensione antropologica dell’alienazione e dimension storica della liberazione. La visione che Sartre espone in Critique de la raison dialectique (1964), direttamente influenzata dal pensiero freudiano, riconosce il carattere antropologicamente costitutivo, e quindi insuperabile dell’alienazione. Al contrario il pensiero marxista nella sua variante storicista e dialettica considera l’alienazione come un fenomeno storicamente determinato, e dunque superabile con l’abolizione dei rapporti sociali capitalisti.

Nel saggio del ‘29 Freud anticipa le linee di questa discussione,  criticando l’ingenuità del pensiero dialettico:

“I comunisti pensano di aver trovato la via per liberarci dal male.  L’uomo è senza dubbio buono, ben disposto berso il suo prossimo, ma l’istituzione della proprietà privata ha corrotto la sua natura…. Se si abolisse la proprietà privata, se tutti i beni fossero messi in comune e tutti potesser prendere parte al loro godimento, malevolenza e ostilità tra gli uomini scomparirebbero……. Non è affar mio la critica del sistema comunista; non posso sapere se l’abolizione della proprietà privata sia opportuna e proficua. ;a sono in grado di riconoscere che la sua premessa psicologica è un’illusione priva di fondamento.” (Freud, op. cit, capitolo 5)

Ma qui non mi interessa riaprire la discussione tra storicismo ed esistenzialismo, o tra marxismo e psicoanalisi, che va consegnata agli storici della filosofia del Novecento. Quel che mi interessa è segnalare l’esistenza di una comune cornice filosofica, di una comune premessa analitica, che è costituita dalla identificazione della civiltà moderna come sistema basato sulla repressione.

Per Freud il capitalismo moderno, come ogni sistema civile, si fonda su una necessaria rimozione della libido individuale, e su una organizzazione sublimante della libido collettiva. Questa intuizione viene declinata in diverse maniere dal pensiero del Novecento.

Nell’ambito della psicoanalisi freudiana questo disagio è costitutivo ed insuperabile, e la terapia psiconalitica si propone di curare attraverso il linguaggio e attraverso l’anamnesi, le forme nevrotiche che il disagio provoca in noi.  La cultura filosofica di ispirazione esistenzialista condivide questa convinzione freudiana sulla insuperabilità dell’alienazione costitutiva e della repressione della pulsione libidica.

Nell’ambito del pensiero marxista e antiautoritario, al contrario, la repressione è da considerare una forma socialmente determinata che l’azione sociale può eliminare liberando le energie produttive e desideranti che il movimento reale della società contiene in sé.

In entrambi gli scenari filosofici, comunque, il concetto di repressione gioca un ruolo fondamentale, perché questo concetto spiega le patologie nevrotiche di cui si occupa la terapia psicoanalitica, e al tempo stesso spiega la contraddizione sociale capitalista che i movimenti rivoluzionari vogliono abolire per rendere possibile un superamento dello sfruttamento e della stessa alienazione.

“E’ impossibile ignorare in qual misura la civiltà sia costruita sulla rinuncia pulsionale, quanto abbia come presupposto il non soddisfacimento (repressione rimozione o che altro) di potenti pulsioni.”

Negli anni ’60 e ‘70 il concetto di repressione rimane sullo sfondo di ogni discorso politico di ispirazione desiderante. La valenza politica del desiderio si è sempre giocata in opposizione ai dispositivi di repressione. E questa concezione ha finito spesso per rivelarsi una trappola concettuale, e una trappola politica. Per esempio nel 1977 italiano il movimento a un certo punto (dopo l’ondata di arresti seguiti all’insurrezione di febbraio-marzo) scelse di chiamare a raccolta sul tema della repressione, con il convegno di Bologna di settembre.  Forse quello fu un errore concettuale: scegliendo il tema della repressione come piano principale del discorso entrammo nella macchina narrativa del potere, perdemmo la capacità di immaginare forme di vita asimmetriche rispetto al potere, e perciò indipendenti.

Ma alla fine del secolo ventesimo l’intera problematica della repressione sembra dissolversi e uscire dalla scena.

Le patologie che dominano la scena del nostro tempo non sono più, infatti, le patologie nevrotiche prodotte dalla repressione della libido, ma piuttosto le patologie schizoidi prodotte dall’esplosione espressiva del just do it.


Struttura e desiderio

Il pensiero antiautoritario degli anni ’70 si muove nella sfera concettuale freudiana, anche se ne allarga e rovescia gli orizzonti storici.  In Eros and Civilisation  Marcuse proclama l’attualità di una liberazione dell’eros collettivo. La repressione comprime le potenzialità della tecnologia e del sapere impedendo il loro pieno dispiegamento, ma la soggettività critica sviluppa la sua azione proprio rendendo possibile la piena espressione delle potenzialità lipidiche e produttive della società, e crea così le condizioni per un pieno realizzarsi del principio di piacere.

L’analisi della società moderna si intreccia con la descrizione dei dispositivi disciplinari che modellano repressivamente le istituzioni sociali e il discorso pubblico. La recente pubblicazione dei seminari del 1979 (particolarmente la pubblicazione del seminario dedicato alla nascita della biopolitica) ci obbligano a spostare il baricentro del pensiero foucaultiano dal disciplinamento repressivo verso la creazione di dispositivi di controllo biopolitico, ma nelle opere dedicate alla genealogia della modernità (particolarmente La storia della follia, Nascita della clinica, Sorvegliare e punire) Foucault si muove a suo modo nell’ambito del paradigma “repressivo”.

Nonostante l’abbandono del campo freudiano che l’Antiedipo sancì apertamente, anche Deleuze Guattari si muovono entro il campo problematico delimitato da Freud nel 1929 nel suo scritto Disagio della civiltà: il desiderio è la forza motrice del movimento che attraversa la società non meno che il percorso della singolarità, ma la creatività desiderante deve continuamente fare i conti con le macchine da guerra di tipo repressivo che la società capitalistica incunea in ogni nicchia dell’esistenza e dell’immaginario.

Il concetto di desiderio non può essere appiattito su una lettura in chiave “repressiva”. Anzi, nell’Antiedipo il concetto di desiderio è contrapposto a quello di mancanza. Il campo della mancanza su cui è fiorita la filosofia dialettica, su cui la politica del Novecento ha costruito le sue (s)fortune, è il campo della dipendenza, non quello dell’autonomia. La mancanza è un prodotto determinato dal regime dell’economia, della religione, della dominazione psichiatrica.

I processi di soggettivazione erotica e politica, non possono fondarsi sulla mancanza, ma sul desiderio come creazione.  Da questo punto di vista Deleuze e Guattari ci permettono di comprendere che la repressione non è che una proiezione del desiderio. Il desiderio non è manifestazione di una struttura, ma mille strutture può creare. Il desiderio può cristallizzare le strutture, trasformarle in ritornelli ossessivi. Il desiderio costruisce le trappole che intrappolano il desiderio.

Eppure nel dispositivo analitico che si forgia attraverso la genealogia foucaultiana e attraverso il creazionismo deleuziano-guattariano prevale una visione della soggettività come forza di riemergenza del desiderio rimosso contro la sublimazione repressiva sociale. Una visione antirepressiva, piuttosto se vogliamo una visione espressiva.

Il rapporto fra struttura e desiderio è il punto di svolta che porta il pensiero schizoanalitico guattariano fuori dall’orbita del freudismo lacaniano. Il desiderio non può essere compreso a partire dalla struttura, come una variante possibile che dipende dall’invariante del matema psichico. Il desiderio creativo produce infinite strutture, e tra le altre anche quelle che funzionano come dispositivi di repressione.

 
Nella sfera del Semiocapitale

Ma per uscire dal quadro freudiano dobbiamo attendere la posizione di Jean Baudrillard, il cui pensiero ci apparve in quegli anni come pensiero dissuasivo. 

Jean Baudrillard disegna un altro panorama: nelle sue opere dei primi anni ’70 (Il sistema degli oggetti, La società di consumo, Requiem per i media, e infine Oublier Foucault) Baudrillard sostiene che il desiderio è la forza motrice dello sviluppo del capitale, che l’ideologia della liberazione corrisponde al pieno dominio della merce, e che la nuova dimensione immaginaria non è quella della repressione ma quella della simulazione, della proliferazione di simulacri, della seduzione.

Baudrillard ha individuato nell’eccesso espressivo il nucleo essenziale della overdose di reale.

“Il reale cresce come il deserto. L’illusione il sogno la passione la follia la droga ma anche l’artificio il simulacro, questi erano i predatori naturali della realtà. Tutto ciò ha perduto gran parte della sua energia come fosse stato colpito da una malattia incurabile e subdola. “ (J.B: Il patto di lucidità, Cortina, pag. 21).

Baudrillard anticipa una tendenza che nel corso dei decenni è divenuta prevalente: nella sua analisi la simulazione modifica il rapporto tra soggetto e oggetto, costringendo il soggetto nella posizione subalterna di chi soggiace a una seduzione. Non è il soggetto l’attore, ma l’oggetto. Di conseguenza si dissolve tutta la problematica dell’alienazione, della repressione, e del disagio che ne consegue.

In uno scritto dei suoi ultimi anni (quello molto citato su società disciplinari e società di controllo) Deleuze sembra rimettere in questione l’architettura che discende dalla nozione foucaultiana di disciplinamento, e sembra andare in una direzione che è quella che Baudrillard ha seguito fin dai primi anni ’70. Ma quel che mi interessa qui non è tanto una comparazione tra pensiero della simulazione e pensiero del desiderio (che pure un giorno meriterà di essere approfondita). Quel che mi interessa è lo scenario psicopatologico che viene emergendo negli anni in cui la società industriale volge alla conclusione e lascia il passo al Semiocapitalismo, ovvero al capitalismo fondato sul lavoro immateriale e sull’esplosione dell’Infosfera.

La sovrapproduzione è una caratteristica inerente alla produzione capitalistica, perché la produzione di merci non risponde alla logica del bisogno concreto degli esseri umani, ma alla logica astratta della produzione di valore. Ma nella sfera del Semiocapitalismo la specifica sovrapproduzione che si manifesta è quella semiotica: un eccesso infinito di segni circolano nell’Infosfera, e l’attenzione individuale e collettiva ne viene saturata.

L’intuizione di Baudrillard si è rivelata importante alla distanza. La patologia prevalente del tempo che viene non è prodotta dalla repressione, ma dalla pulsione ad esprimere, dall’obbligo espressivo generalizzato.

Nella prima generazione videoelettronica sembrano diffondersi in effetti patologie dell’iper-espressione, non più patologie della repressione.

Quando ci occupiamo della sofferenza del nostro tempo, delle forme di disagio della prima generazione connettiva,  non siamo nella sfera concettuale descritta da Freud nel Disagio della civiltà.  La visione freudiana pone il nascondimento alla base della patologia. Qualcosa ci viene nascosto, qualcosa scompare, rimosso. Qualcosa ci viene impedito.

Quel che sembra oggi evidente è che alla base della patologia non vi è più il nascondimento, ma l’iper-visione, l’eccesso di visibilità, l’esplosione dell’Infosfera, il sovraccarico di stimoli info-nervosi.

Non la repressione ma l’iper-espressività è il contesto tecnologico e antropologico entro cui comprendiamo la genesi delle psicopatologie contemporanee: ADD, dislessia, panico. Patologie che alludono ad un’altra modalità di elaborazione dell’input informativo, ma che intanto si manifestano come sofferenza, disagio, emarginazione.

Vorrei segnalare qui – anche se forse non ce ne sarebbe bisogno – che il mio discorso non ha nulla a che fare con le prediche reazionarie e bigotte sui mali provocati dalla cosiddetta permissività, e su quanto bene faceva ai costumi e all’intelletto la repressione dei bei tempi andati.

 
Patologie dell’espressività

Introducendo un libro dedicato alle forme contemporanee della psicopatologia, (Civiltà e disagio a cura di Cosenza Recalcati Villa) scrivono i curatori:

“Scrivendo questo libro abbiamo voluto ripensare il binomia civiltà e disagio alla luce delle trasformazioni sociali profonde che hanno investito la nostra condizione di vita. Tra queste una delle più significative è il cambiamento di segno dell’imperativo sostenuto dal Super-io sociale contemporaneo rispetto a quello freudiano. Mentre quello freudiano esige la rinuncia pulsionale, quello contemporaneo sembra porre la spinta al godimento come un nuovo imperativo sociale. In effetti le forme sintomatiche del disagio della civiltà sono oggi in stretta relazione con il godimento, sono vere e proprie pratiche di godimento (perversioni tossicomanie, bulimie, obesità, alcolismo) oppure manifestazioni di una chiusura narcisistica del soggetto che produce un ristagno del godimento nel corpo (anoressie depressioni panico).”  (Civiltà e disagio, Bruno Mondadori, 2006)

La psicopatologia sociale prevalente, che Freud identificava nella nevrosi, e descriveva come conseguenza della rimozione, oggi va piuttosto identificata nella psicosi, e va sempre più associata alla dimensione dell’agire e dell’eccesso energetico-informativo, piuttosto che a quella della rimozione.

Nel suo lavoro schizoanalitico, Guattari si è concentrato sulla possibilità di ridefinire l’intero campo della psicoanalisi partendo da una ridefinizione del rapporto tra nevrosi e psicosi, e partendo dalla centralità metodologica e conoscitiva della schizofrenia. Questa ridefinizione ha avuto un effetto politico potentissimo, ed ha coinciso con l’esplosione dei limiti nevrotici che il capitalismo poneva all’espressione, costringendo l’attività entro i limiti repressivi del lavoro, e sottoponendo il desiderio alla rimozione disciplinante. Ma la stessa pressione schizomorfa dei movimenti e la stessa esplosione espressiva del sociale ha portato ad una metamorfosi (schizometamorfosi) dei linguaggi sociali, delle forme produttive, e in ultima analisi dello sfruttamento capitalista.

Le psicopatie che si diffondono nella vita quotidiana delle prime generazioni dell’era connettiva non sono in alcun modo comprensibili dal punto di vista del paradigma repressivo e disciplinare. Non si tratta infatti di patologie della rimozione, ma si tratta di patologie del just do it.

“Di qui la centralità della psicosi che diversamente dalla clinica della nevrosi che è una clinica simbolica perché istituita sul carattere linguistico-retorico della rimozione e sul fondamento normativo dell’Edipo è sempre una clinica del reale non governato dalla castrazione simbolica, dunque più prossima alla verità della struttura (il reale del godimento è infatti strutturalmente impossibile da simbolizzare integralmente).” (Recalcati: La personalità borderline e la nuova clinica, in Civiltà e disagio, pag. 4)

E anche:

“Il motivo della dispersione d’identità indica l’assenza di un centro identificatorio che permetta al soggetto, come avviene nelle nevrosi, di strutturare un Io forte dai confini definiti e con capacità di integrazione delle prime relazioni oggettuali e delle loro identificazioni.” (Recalcati, op cit. pag. 22).

Dal punto di vista semio-patologico, la schizofrenia può essere considerata come un eccesso del flusso semiotico rispetto alla capacità di interpretazione. E’ quando l’universo si mette a correre troppo veloce, e troppi segni chiedono di essere interpretati, che la nostra mente non riesce più a distinguere le linee e i punti che danno forma alle cose. Cerchiamo allora di cogliere un senso attraverso un processo di over-inclusione, attraverso l’estensione dei limiti del significato.

“Chiediamo solo un po’ d’ordine per proteggerci dal caos. Nulla è più doloroso, più angoscioso di un pensiero che sfugge s ase stesso, delle idee che fuggono, che scompaiono appena abbozzata, già pronte per l’oblio o precipitate in altre idee che non possiamo padroneggiare. Sono delle variabilità infinite la cui apparizione scomparsa coincidono. Sono velocità infinite che si confondono con l’immobilità del niente incolore e silenzioso che essere percorrono senza natura né pensiero.” (Deleuze Guattari: Che cos’è la filosofia)

Scrivono Deleuze e Guattari nella conclusione al loro ultimo libro comune, Cos’è la filosofia?

 
Semiotica della schizofrenia

Un regime semiotico può essere definito come repressivo perché in esso a ogni significante viene attribuito un significato e uno solo. Guai a chi non interpreta nella giusta maniera i segni del potere, chi non saluta la bandiera , chi non porta rispetto al superiore, chi trasgredisce la legge. Ma il regime semiotico nel quale ci troviamo, noi abitanti dell’universo semiocapitalista è caratterizzato  dall’eccesso di velocità dei significanti, e quindi stimola una sorta di iper-cinesi interpretativa. L’over-inclusion propria della interpretazione schizofrenica diviene la modalità predominante della navigazione nell’universo proliferante dei media videoelettronici.

Nel capitolo Verso una teoria della schizofrenia, Bateson così definisce l’interpretazione schizofrenica:

“Lo schizofrenico manifesta debolezza nei tre campi di tale funzione: a) ha difficoltà nell’assegnare il corretto modo comunicativo ai messaggi che riceve dagli altri b) ha difficoltà nell’assegnare i corretto modo comunicativo ai messaggi verbali e non verbali, c) ha difficoltà nell’assegnare il corretto modo comunicativo ai suoi stessi pensiero sensazioni e percezioni.” (Gregory Bateson: Verso una teoria della schizofrenia, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, pag. 248. Titolo originale Steps in an Ecology of Mind, Chandler, 1972).

Nell’Infosfera videoelettronica noi tutti ci troviamo nelle condizioni che descrivono la comunicazione schizofrenica. Esposto al sovraccarico di impulsi significanti il ricevente umano, incapace di elaborare in sequenza il significato degli enunciati e degli stimoli, soffre delle tre difficoltà di cui parla Bateson. Inoltre vi è un’altra particolarità dello schizofrenico di cui parla Bateson: quella di non saper distinguere la metafora dall’espressione letterale.

“La particolarità dello schizofrenico non è quella di usare metafore, ma quella di usare metafore senza contrassegno.” (Bateson, ibidem, pag. 248)

Ma nell’universo della simulazione digitale la metafora e la cosa sono sempre meno distinguibili, la cosa si fa metafora e la metafora cosa, la rappresentazione prende il posto della vita e la vita ilposto della rappresentazione. Il flusso semiotico e la circolazione di merci sovrappongono i loro codici, entrano a far parte della medesima costellazione che Baudrillard definisce iper-reale. Perciò il registro schizofrenico diviene il modo di interpretazione prevalente. Il sistema cognitivo collettivo perde la competenza critica che consisteva nel saper distinguere il valore di verità o di falsità negli enunciati che si presentavano in sequenza alla sua attenzione mediamente sveglia. Nell’universo proliferante dei media veloci l’interpretazione non si svolge secondo linee sequenziali ma secondo spirali associative e connessioni a-significanti.

 
Interpretazione in condizioni di sovraccarico

In un saggio intitolato Learner based listening and technological authenticity, Richard Robin, un ricercatore della George Washington University studia gli effetti che l’accelerazione nell’emissione vocale produce sulla comprensione degli ascoltatori. Robin fonda la sua ricerca sul calcolo del numero di sillabe al secondo pronunciate dall’emittente. Quanto più l’emissione si accelera, tanto più numerose sono le sillabe pronunciate ogni secondo, e tanto minore è la comprensione del significato da parte dell’ascoltatore. Quanto più veloce è il flusso di sillabe al secondo, tanto minore è il tempo di cui l’ascoltatore dispone per una elaborazione critica del messaggio. La velocità dell’emissione e la quantità di impulsi semiotici inviati nell’unità di tempo sono funzione del tempo disponibile per l’elaborazione cosciente da parte del ricevente.

Second Robin “L’emissione veloce intimidisce gli ascoltatori. Ci sono prove del fatto che la globalizzazione ha prodotto dei tempi di emissione più rapidi in arre del mondo in cui gli stili di trasmissione occidentali hanno sostituito gli autoritari stili di trasmissione tradizionale. Nell’ex Unione sovietica, ad esempio, la velocità di emissione misurata in sillabe per secondo è quasi raddoppiata dopo la caduta del regime comunista: da tre silla be al secondo a quasi sei. Simili comparazioni hanno portato alle stesse conclusioni in Medio Oriente e in Cina.” (Robin, R. (1991). Russian-language listening comprehension: where are we going? where do we go? Slavic and East European Journal, 35(3), 403-410.!

Questa osservazione di Robin contiene implicazioni enormemente interessanti per capire il passaggio da una forma di potere autoritario di tipo persuasivo (come erano i regimi totalitari del Novecento) a una forma di potere biopolitico di tipo pervasivo (come l’Info-crazia contemporanea): I primi sono fondati sul consenso: i cittadini debbono capire bene le ragioni del Presidente, del Generale, del Fuhrer, del Segretario o del Duce. Una sola fonte di informazione è autorizzata. Le voci dissidenti sono sottoposte a censura.

Il regime info-cratico del Semiocapitale fonda il suo potere sul sovraccarico, accelera i flussi semiotici, fa proliferare le fonti di informazione fin quando esse raggiungono il rumore bianco dell’indistinguibile, dell’irrilevante, dell’indecifrabile.

L’arte del Novecento si è concepita come flusso desiderante, come espressività liberatoria. Il Surrealismo celebra la potenza espressiva dell’Inconscio come forza liberatoria delle energie sociali e psichiche. Ma nel nostro tempo l’arte (la produzione di artifici semiotici) è flusso di inquinamento della psicosfera. Al tempo stesso l’arte è anche flusso di terapia dell’ecologia mentale. L’arte ha preso il posto della polizia nel dispositivo universale di dominio mentale. Ma al tempo stesso cerca le strade per una terapia.

Se nella società moderna la patologia prevalente a livello epidemico era la nevrosi prodotta dalla repressione, oggi le patologie che si diffondono epidemicamente hanno carattere psicotico-panico.

L’iper-stimolazione dell’attenzione riduce la capacità di interpretazione sequenziale critica, ma riduce anche il tempo disponibile per l’elaborazione emozionale dell’altro, del corpo dell’altro e del discorso dell’altro, che cerca di essere compreso senza poterci riuscire.