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06 2008

Mission Imbpossible - Intervista di Hito Steyerl a Jon Solomon sul progetto da lei realizzato “DeriVeD”

Jon Solomon / Hito Steyerl

Traduzione: Viviana Costabile

“DeriVeD”[1] si basa su una cartografia psicogeografica della Peoples Square (Piazza del Popolo) di Shanghai seguendo dei Dvd acquistati nei quartieri che circondano la città. Anche qui, come in molti posti delle città cinesi, i Dvd sono molto facilmente reperibili e in più assumono forme sorprendenti ed imprevedibili. “DeriVeD” illustra una mappa dei flussi di suoni e di immagini, dei drammi e dei desideri che circolano nel contesto dei conflitti globali intorno alla proprietà intellettuale. I Dvd si muovono su un livello di globalizzazione contraddistinto da immagini e suoni mossi, da desideri erranti, da fraintendimenti strutturali e da significati contorti. L’installazione combina testi e immagini delle copertine dei Dvd e comprende poster di film inesistenti così come citazioni di testi che vanno da licenze false passando per improbabili tagline (slogan con cui in genere vengono presentati i film, solitamente riportati sulle locandine pubblicitarie vicino al titolo) e testi di copertina stupefacenti fino a titoli di coda completamente sbagliati. Le diverse cartografie del progetto “DeriVeD” affrontano la questione del falso e dell’originale, della pirateria, del pastiche, della copia ed infine delle traduzioni che ne derivano (da qui il nome “derived”). L’uso inventivo della lingua inglese su queste copertine non rimanda tuttavia a consistenti lacune nella lingua stessa, ma a delle tensioni a cui la lingua è soggetta nell’ambito delle industrie culturali globali, delle forze di lavoro mobili e delle nuove forme della composizione di classe. In tali situazioni la traduzione risulta essere un’acuta espressione di contraddizioni politiche, di quadri sociali in mutamento e dell’irrevocabile intreccio di immaginari globali e locali.

La seguente intervista con Jon Solomon, teorico della traduzione nonché professore associato al Dipartimento di studi di futurologia all’università di Tamkang, cerca di fare chiarezza su alcune di queste dinamiche.

 
HITO STEYERL: La produzione del testo in inglese che è possibile trovare su alcune copertine di Dvd cinesi è piuttosto straordinaria. Vorrei, a tal riguardo, riportare solo un esempio tratto dalla copertina del film di Martin Scorsese “The Departed” (The Departed-Il bene e il male): “British pubs are jazz singer, she is sexy, vibrant untamed beauty of naturally lively bold. She was to get rid of countless man. United states and Britain have never been on the eyes of man, at best, is a ‘Call to come’ that is able to play only a doll’. However there is a perfect man – hyun a day completely changed the debauchery Britain unable to resist his charm. He ignored all into the embrace. Wit the people’s”[2]. I credits dei registi/macchinisti sono attribuiti a Nonzee Nimibutr. Le tagline: “The set have blood. Contain fleshy war epic. Must risk everyt-.”[3] O, ancora più breve, addirittura, il titolo del Dvd: “Mission Imbpossible”.

La domanda è la seguente: che senso si deve dare a questo eccesso di traduzione creativa, di riattribuzione e di stravolgimento (del significato)? Quali dinamiche economiche, sociali, politiche e creative s’intersecano in questo tipo di produzione del testo?

 
JON SOLOMON: Suppongo che la ragione del perché questa particolare forma di eccesso eserciti oggi una certa attrazione, risieda nell’opacità o nella torbidità del suo contesto. Questa non può dirsi una caratteristica casuale o esterna agli argomenti qui in questione, visto che anche questo presente testo in inglese dovrebbe in un certo senso rappresentare una forma di contestualizzazione. Si tratta quindi di una questione di contestualizzazione in un campo globale.

Certamente, la questione del senso e del nonsenso è molto centrale, non solo per gli studiosi ed i teorici della traduzione che si sono, bene o male, sempre occupati di questo tema, ma anche per ogni tentativo di pensare alla relazione tra significato e mondo all’interno della nostra particolare congiuntura storica. In che modo si può eseguire un’operazione di contestualizzazione in una situazione in cui la necessaria finzione dell’esteriorità, implicata dal concetto di contesto, non funziona più in maniera così semplice? O ancora: per quanto tempo ancora continueremo a ritenere il McDonald un “fast food americano” se gli imprenditori dei franchising di Taipei, Hong Kong e Pechino detengono continuamente record mondiali riguardo al numero di clienti che vengono serviti al giorno?

Quando Jean-Luc Nancy parla della “fine del senso del mondo” e della “fine del mondo del senso” come di un’unica cosa, vuole sicuramente porre l’attenzione sul modo in cui una determinata concezione di esteriorità – praticamente eliminata dalla recentissima ondata di globalizzazione – sia stata fondamentale, sia per la costruzione di “mondo” che di “significato”, sin da quando, per la prima volta, l’idea di una storia del mondo divenne significativa. Tuttavia, egli ci esorta anche a riconoscere che non si può pensare ai modi di determinazione di qualsiasi categoria che sostituisca quella di un “mondo storicamente significativo”, né in termini di un ritorno ai “mondi” che precedevano la creazione di quello che noi conosciamo attraverso l’esperienza della scoperta e dello scontro coloniale, né attraverso l’adozione di ciò che egli chiama “Platonismo sonnambulistico”, in cui le parole sono equiparate alle cose – e la pubblicità annuncia la verità filosofica del tempo (un Platonismo più spettacolare che sonnambulistico, direi). Credo che uno dei motivi per cui tu, cara Hito, sia interessata a questi Dvd della Repubblica Popolare Cinese derivi dal fatto che, anche tu, ritrovi nel loro eccesso di significato la concentrazione delle contraddizioni che caratterizzano il nostro tempo: ovvero 1) che esiste un unico mondo (nonostante non sappiamo ancora cosa ciò voglia dire), e 2) che inoltre non siamo in grado di pensare a quest’unico mondo senza ricadere nella narrazione del ritorno.

Una “Mission” veramente “Imbpossible”: anche se l’aggiunta della “b” trasforma la parola “impossibile” in un inequivocabile nonsenso, come facciamo a non vedervi in essa una realizzazione performativa dell’impossibilità (la scomparsa simultanea e l’eccesso di contesto)? Sarebbe sì fantasioso, ma non privo di un certo fondamento guardare “Mission Imbpossible” come un epigramma per la poetica ontologica di una “incompossibilità” nel mondo odierno.

 
HITO STEYERL: Stai facendo una considerazione molto importante a tal riguardo. Questa nuova lingua che si basa sull’inglese rappresenta di sicuro l’espressione, il sintomo, di una mancanza che indica un regresso da superare. Questa mancanza, questo regresso, però, non appartengono ai loro autori, quanto piuttosto a noi stessi. Io intendo questa lingua come una lingua proveniente dal futuro che, purtroppo, non riusciamo ancora a comprendere completamente ma che già racchiude, al suo interno, messaggi importantissimi riguardanti le tensioni sociali contemporanee. Se non siamo in grado di capire tale lingua, non possiamo neanche arrivare al nostro presente. Intendo inoltre questa produzione del testo come propria di una lingua che si trova sotto pressione: essa esprime le tensioni derivanti dalle molteplici globalizzazioni, dalla lotta intorno alla Proprietà Intellettuale, dalla confusione di una geografia posteuclidea in grado di generare spazi topologici che trascendono le divisioni binarie di interno/esterno e di centro/periferia. Le complesse collocazioni di questa lingua sono perfettamente descritte in una frase congeniale tratta dalla copertina di un altro Dvd: “She is from outside the extrication.”[4] Le lingue che vengono parlate “al di là della liberazione” – nei corridoi, nelle exclavi, nelle zone di libero mercato, nei protettorati, ai checkpoint e nei cordoni sanitari della globalizzazione, sulle linee conflittuali tra gli stati e le imprese – sono il risultato di reali sforzi comuni. Le nuove lingue inglesi parlate nel mondo lasciano presagire delle similarità rispetto ai nostri futuri. Una pallida e fugace immagine di questo futuro linguaggio della globalizzazione ci viene fornita (anche se, purtroppo, in maniera piuttosto naive) dal film “Code 2046” di Michael Winterbottom, in cui Shanghai funge da sfondo di una città globale futura perseguitata dalla paura della riproduzione illecita e di cloni incestuosi. Il neo-inglese tuttavia è troppo timoroso e accondiscendente verso gli standard dominanti per poter competere, in quanto a rilevanza, con gli idiomi inglesi lì realmente esistenti.

Queste lingue in divenire sono senza dubbio delle lingue spezzate, frammentate, e vengono così definite, esattamente perché esiste una tale pressione su di loro che s’infrangono come placche tettoniche e parlarle è un po’ come masticare delle rovine.

 
JON SOLOMON: Certo, ai neoplatonici tra noi perfino questo tipo di lettura appare troppo libera. Di conseguenza risulta chiaro che al giorno d’oggi si vuole sempre avere a che fare con un tipo di lettura culturalistica familiare che vorrebbe ritrovare in questa copia alterata dell’inglese l’affermazione compiaciuta di una relazione mimetica, implicitamente neocoloniale, tra la Cina e l’Occidente. Durante il boom lungo l’orlo del Pacifico negli anni '80 (che precedette il boom continentale iniziato negli anni '90), la Far Eastern Economic Review, una rivista di tutto rispetto, pubblicò un’abituale colonna dedicata alla presunta ilarità scatenata dall’uso dell’inglese non-standardizzato in Asia orientale.

 
HITO STEYERL: …d’altro canto mi ricordo di una certa produzione giapponese di slogan degli anni '80 che aveva sviluppato un proprio stile particolare, rispetto all’uso dell’inglese, per esprimere un preciso vuoto causato da un ossessivo lifestyle che, secondo il mio punto di vista, era chiaramente connesso con la bolla speculativa di quel periodo. In quei tempi di speculazione fantasmatica, proprio come il valore di scambio sembrava perdere ogni contatto con un referente materiale, anche la lingua sembrava priva di qualsiasi relazione con alcuna cosa al di fuori di essa, appiattita dalla ripetizione di nomi di marche. Per questa ragione, credo che nella creazione delle lingue inglesi dell’Estremo Oriente siano coinvolte delle specifiche dinamiche locali. Ma hai pienamente ragione, la maggior parte dei parlanti dell’inglese mainstream guarda a questi fenomeni con un tardo compiacimento coloniale, anche se dubito realmente che questi se lo possano permettere.

 
JON SOLOMON: Il testo di Evelyn Ch’ien Weird English[5] propone un buon antidoto a questo tipo di atteggiamento tracotante, dimostrando come l’uso non standardizzato dell’inglese sia diventato un’importante risorsa di creatività, se non addirittura un genere a sé stante. Tuttavia la totale mancanza di parità tra la diffusione di una delle riviste settimanali di lingua inglese più conosciute e quella, anche se molto popolare, di una monografia accademica, rimanda a ciò di cui i “Platonisti sonnambulistici”, facendosi beffa dell’inglese non standardizzato parlato dai nativi, vorrebbero tenerci allo scuro, ovvero: ciò che oggi passa per cultura non sono più i gusti dominanti di una borghesia nazionale o imperialistica, bensì qualsiasi cosa abbia raggiunto lo stato di valore di scambio.

Come si può giudicare l’estetica di una copia inglese su dei Dvd cinesi quale forma di una cultura non autentica, considerato il successo delle “soap al cellulare” (cell phone novelas) ultimamente così popolari in Giappone e sempre più diffuse anche nel resto dell’Asia orientale? Che siano state scritte o meno sui telefoni cellulari, questo genere – concepito secondo una lingua supponibilmente “nativa” – si distingue per uno stile ed una grammatica ideati per far storcere il naso ai guardiani dell’autenticità. E’ molto difficile, se non impossibile, riprodurre nella traduzione le differenze stilistiche, sebbene si possa immaginare quali compromessi entrino in gioco nel caso di una soap interamente scritta in forma di sms, anche nel caso in cui fosse concepita in inglese. Il quotidiano Sydney Morning Herald riporta le parole di Toru Ishikawa, professore di letteratura giapponese alla prestigiosa Università Keio di Tokyo: “La grandezza dello schermo costringe gli autori ad usare frasi brevi e concise, formate da parole semplici. Se questo è il modo in cui si misura la qualità della letteratura, allora, certo che la predominanza di un simile tipo di scrittura non può che affondare la letteratura giapponese…Ma ciò potrebbe anche incoraggiare gli scrittori ad avere un rapporto molto più inventivo con la lingua, la quale deve costantemente svilupparsi, evolversi.”[6]

Il notevole “eccesso” che è possibile costatare in questi Dvd è una fedele riproduzione in un senso molto reale, in quanto in tale eccesso si rispecchia l’effettiva estetica della ricezione dell’inglese nell’attuale società cinese. Gli effetti dello “tsunami inglese”, che inonda le relazioni sociali sotto tutti i livelli, non possono quindi essere sopravvalutati. La mia sensazione è che la forma quotidiana dell’inglese costituisca un reale eccesso per le popolazioni estremamente mobili (come ad esempio le forze lavoro cinesi) soggette ad una nuova forma di segmentazione sociale, in parte causata dal dominio a livello globale della lingua inglese. Ciò solleva una delle questioni fondamentali sulla traduzione: coloro per i quali la traduzione è un qualcosa di necessario, non hanno assolutamente alcuna possibilità di verificare in prima persona l’autenticità di una traduzione. Stando alle attuali condizioni della produzione effettiva all’interno delle industrie della traduzione, dove esiste una forte asimmetria tra le lingue come il cinese e l’inglese, ciò sta a significare che i parlanti monolingui dell’inglese sono confrontati con uno svantaggio relativo. Mentre la maggior parte dei cinesi nei centri urbani oggi possiede una certa familiarità con l’inglese, lo stesso non si può dire per coloro che parlano l’inglese, al di fuori della Cina, nei confronti del cinese.

 
HITO STEYERL: Questo, per quel che interessa coloro i quali parlano l’inglese e leggono le copertine dei Dvd cinesi. E per quanto riguarda invece il pubblico cinese che molto probabilmente costituisce la più grande fetta del mercato? Quali sono le sue aspettative rispetto a queste copertine? Devono sembrare “straniere”?

 
JON SOLOMON: Sì, le copertine devono sembrare straniere, allo stesso modo in cui anche McDonald’s deve apparire straniero in Cina. Queste categorie sono, però, ovviamente inappropriate, innanzitutto perché non abbiamo unicamente a che fare con una pura correlazione tra differenze linguistiche e spaziali, che permetterebbe di tracciare senza problemi le differenze tra il testo “cinese” e quello “inglese” facendo una cartografia delle differenze spaziali tra le varie nazioni o civiltà. Come già precedentemente accennato, l’inglese concorre in maniera sempre più crescente alla formazione di differenze sociali e di classi all’interno della Cina odierna. Allo stesso tempo, proprio il concetto di classe – che, tradizionalmente, per poter costituire un effettivo strumento di analisi sociale doveva riferirsi alle differenze presenti all’interno di una singola nazione – si sta ora ampliando al fine di includere un nuovo livello globale. Certamente la generazione più anziana dei cinesi è ancora segnata dall’esperienza storica dell’“allontanamento” (dall’economia e dalla politica mondiale) durante il Maoismo e, per essa, l’inglese costituirà sempre il segno di un’esteriorità assoluta, anche se non c’è alcun dubbio che la situazione attuale si sia decisamente evoluta.

Il fatto che i lavoratori cinesi rappresentino la più grande forza-lavoro migrante a livello mondiale, soggetta alla politica di un singolo Stato, rende la loro posizione nei confronti del Capitale potenzialmente esplosiva. In circostanze normali verrebbe naturale credere che la concentrazione senza precedenti di investimenti di capitale, associata ad un tale enorme livello di migrazione, produca una situazione rivoluzionaria, ma non è questo il caso. Di conseguenza ci troviamo di fronte ad una situazione in cui ci si affida a delle categorie palesemente inadatte (come “straniero” e “nativo”), ora più che mai.

L’immagine che qui sto tracciando, quindi, è un’immagine in cui la cultura – un amalgama di immagini sulla lingua e sull’etnicità – rappresenta l’ideologia attraverso cui il Capitale, nonostante fortissime contraddizioni sociali, riesce a mantenere il suo dominio. Dietro l’apparente autenticità dell’industria culturale dell’immagine si cela un regime di produzione completamente transnazionale. I “Cinesi” non sono gli unici responsabili per la creazione della “Cinesità” o della “cultura Cinese” quali figure globalmente riconosciute di differenziazione antropologica; lo stesso vale per la produzione dell’“Occidente” che, come abbiamo visto nel caso di questi Dvd, non risiede unicamente nelle mani dell’“Occidente”. Hollywood ha afferrato la verità di questa situazione ed infatti immette, sempre più, sul mercato prodotti come Geisha creati apposta per avvalorare le aspettative del pubblico asiatico rispetto ad un Orientalismo Occidentale.

 
HITO STEYERL: Tu hai anche affermato che, in molti casi, queste copertine dei Dvd non distorcono unicamente l’originale, ma lo migliorano anche.

 
JON SOLOMON: Una certa logica di mercato concorre nel professionalismo mostrato nella produzione di alcune copie pirata, realizzate con una tale dovizia di particolari ed una tale attenzione alla presentazione, da far concorrenza alle stesse versioni ufficiali e, addirittura, a volte – come nel caso dei film classici non più facilmente reperibili sul mercato, tranne che in versione pirata – da superarle.

 
HITO STEYERL: A me piaceva in particolare il logo rubato al Video Packaging Review Committee sulla copertina del Dvd di un film d’essai, altrimenti perfettamente contraffatto, distribuito da Artificial Eye. Era stato cambiato e quello nuovo suonava così: Video Fack Acino Revier Comitke. E’ questa attenzione al particolare ad essere così irresistibile: il logo è piccolo e quasi invisibile, il resto praticamente perfetto. Questo piccolo logo era evidentemente autoreferenziale, come una tag che un artista di graffiti farebbe su un muro con una bomboletta spray o semplicemente come la firma di un artista. Sembrano esserci comunque vari tipi di approcci verso l’arte della copertina (cover-art) e della traduzione di testi inglesi: alcune sono realizzate in uno pseudo inglese; alcuni traducono poi con tutta serietà delle trame assurde di film d’azione per conformarsi alla morale confuciano-socialista oppure alla sensibilità storico-materialista, altri ancora ricopiano le voci di Wikipedia o semplicemente usano il servizio di traduzione online di Google (Google Tran) per creare i loro blurb (breve recensione o riassunto della trama apposta sui Dvd ndt). La cosa che trovo in ogni caso maggiormente interessante è l’approccio ironico di molti artisti della copertina che non esitano a riportare sulle copertine dei Dvd degli slogan tutt’altro che lusinghieri, tratti da critiche inventate e da riviste. Questo tipo di atteggiamento mi fa pensare alle meravigliose illustrazioni dei copisti medioevali europei, a margine delle quali essi scrivevano: “mi annoio di morire.” Potresti descrivermi qualche condizione che riesca a restituire il quadro dei diversi approcci nei confronti di questa arte di produzione di testi e immagini?

 
JON SOLOMON: Innanzitutto esiste un’economia nella divisione del lavoro. I compiti, generalmente separati, di editing e di layout delle copertine sono, nel caso di queste copie pirata, strettamente collegati. Nonostante il lavoro non dovrebbe essere pagato al pezzo, in questo settore esisterà sicuramente la stessa pressione, presente anche in altri ambiti dell’industria della traduzione, per incentivare la produzione a cottimo.

Inoltre la divisione del lavoro è “genderizzata” (in quanto i compiti vengono assegnati ai lavoratori in base al loro sesso ndt). Sebbene non sia in grado di fornire cifre precise, scommetterei che i redattori e i responsabili del design, che di fatto producono le copertine di questi Dvd, sono donne istruite che vivono in centri urbani ed hanno conoscenze – pur se non professionali – sia nell’uso del software desktop-publishing che dell’inglese.

C’è da dire ancora che il mercato di questi Dvd deve scontrarsi con una forte concorrenza proveniente dal download del p2p (peer to peer, che permettere di scaricare tutto gratis e velocemente ndt). Il modo, poi, in cui questi Dvd vengono confezionati (e la facilità con cui si riesce a realizzarli senza lasciar alcuna traccia) è un’importante fonte di valore aggiunto per quanto riguarda l’attrazione verso questo tipo di prodotto. La natura transnazionale dell’industria culturale dell’immagine è oggi sempre più collegata ai regimi che riguardano i diritti della proprietà intellettuale.

Quanto manca ancora, prima che il trend verso la crescente privatizzazione del lavoro creativo in ambito pubblico coincida del tutto con i rapporti asimmetrici dell’industria globale della traduzione, accelerando così la privatizzazione della cultura, se non di intere lingue nazionalizzate? Mentre l’accondiscendente scherzoso sfottò dell’inglese asiatico negli anni '80 va trasformandosi nell’imposizione aggressiva dei diritti di proprietà nel nuovo millennio, all’orizzonte si profila una lotta per l’appropriazione e la privatizzazione del sapere collettivo.

 
HITO STEYERL: Viviamo già in un’epoca in cui la pirateria viene abitudinariamente associata al terrorismo e in cui i paesi con i maggiori mercati di pirateria vengono etichettati come “stati canaglia”. Il caso di Jack Valenti, ex direttore della MPAA (American Motion Pictures Association), risulta molto interessante a tal riguardo: egli sosteneva infatti che la pirateria finanziava i terroristi internazionali. Altri ancora sostenevano che gli Hezbollah, i separatisti ceceni, gli estremisti kosovari e l’IRA fossero addirittura i committenti di tali operazioni, creando così un collegamento tra la riproduzione illecita e la violenza estrema, che áncora fermamente i primi nel campo dell’Altro assoluto.

Già negli anni ’80 Valenti si era fatto in prima linea per quel che riguardava il panico da “riproduzione” (pirata): divenne infatti noto per essersi scagliato con toni accesi contro la Sony che aveva prodotto il videoregistratore Betamax e nel 1982, davanti ad una commissione congressuale, pronunciò le seguenti parole: “Vi dico che per i produttori cinematografici ed il pubblico americani il VCR rappresenta la stessa cosa che per una donna da sola a casa rappresenta lo strangolatore di Boston.” Ovviamente già in quel periodo le ansie riguardo alla riproduzione illecita vennero razzializzate nell’immagine dello spionaggio industriale asiatico e della riproduzione senza scrupoli di prodotti occidentali. Ora, simili affermazioni vengono inserite in una retorica della “Guerra contro il terrorismo”, atta ad intimorire e criminalizzare coloro che fanno uso del p2p e del download mediante il protocollo BitTorrent. Dall’altro canto, però, gli stessi pirati di copie illegali sono spesso agenti attivi di violente privatizzazioni ed espropriazioni. Numerosi casi in cui gli immigrati illegali sono stati costretti a vendere merce pirata per gang criminali dimostrano che, i pirati illegali non sono necessariamente delle nobili figure (come vien fuori dall’immaginario di molta gente di sinistra) ma al contempo sono anche degli attori privilegiati nella spietata privatizzazione di ogni cosa, in quanto meno soggetti alle restrizioni della legge rispetto ad altri attori.

Probabilmente le lingue “spezzate” sulle copertine dei Dvd esprimono l’insieme di tutte queste contraddizioni. Oggigiorno, la distinzione tra “coloro i quali possiedono” e “coloro i quali non possiedono”, adottata quale principale metro di differenziazione tra le persone, viene sostenuta anche da un’altra distinzione: tra “coloro che sanno” e “coloro che non sanno”. Le lingue spezzate rifletterebbero, in un certo senso, le lotte sul controllo della produzione e della riproduzione simbolica, dall’altro lato potrebbero ben rappresentare gli sforzi nel creare un comune (linguaggio) al di là della nazione e dell’impresa. Esse creano forse uno spazio sconfinato di virtuosi dell’arte della copertina, i quali inventano delle nuove lingue quasi per caso. Questo spazio rappresenta sia un luogo di conflitto che di creazione del comune, uno spazio per contraddizioni condivise. O come spiega in maniera trionfante una copertina: “The virtuous space worries together.” Lo spazio virtuoso si preoccupa insieme.

 
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[1] Il progetto „DeriVeD“ è stato realizzato da Hito Steyerl per la Biennale di Shanghai di quest’anno (2008).

[2] La traduzione suonerebbe pressappoco in questo modo: “I pub britannici sono cantanti di jazz, lei è una bellezza sexy, vibrante, indomabile, di una temerarietà, di un’audacia naturalmente vive. Si è dovuta sbarazzare di innumerevoli uomini. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non sono mai stati (presenti) davanti agli occhi degli uomini, nel migliore dei casi è un ‘Richiamo al ritorno (verso casa)’ che solo una bambola è in grado d’interpretare. Tuttavia c’è un uomo perfetto – Hyun ha cambiato totalmente la sregolatezza di una giornata, (essendo) la Gran Bretagna incapace di resistere al suo fascino. Egli ha tralasciato tutto in un abbraccio. Umorismo della gente/del popolo.”

[3] All’incirca: “Il set è sanguinoso. Include una polposa ed invitante epica guerresca. Si deve rischiare tutto.”

[4] All’incirca: “Lei proviene dall’al di là della liberazione.”

[5] Evelyn Nien-Ming Ch’ein, Weird English, Cambridge: Harvard University Press 2004.