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05 2021

Una grammatica di liberazione

Antonio Negri

Che cos’è oggi la vita di un militante comunista? Di un militante formatosi dopo il tramonto dei Soviet? Quale il suo orizzonte politico, quando l’autonomia del militante e delle sue lotte non venga più confrontata a modelli del passato e la storia della classe lavoratrice abbia sbarazzato il terreno dall’immagine del Partito e della III Internazionale?

Nato negli anni ’30, partecipo dell’ultima generazione formatasi nel mondo dei Partiti comunisti. Quando cominciai a far politica mi fu naturale ricondurre l’azione della classe lavoratrice sotto il modello del Partito operaio – lo imponevano le grandi organizzazioni nelle fabbriche e nella società fordiste. La luce dei Soviet era d’altra parte riemersa potente a Stalingrado, nella grande guerra antifascista che aveva portato alla vittoria ed onorato la Resistenza dei comunisti ovunque nel mondo. Ed anche la ripresa in mano del comando capitalista sul lavoro e sulla società restava intrisa dal contropotere dei lavoratori che il keynesismo economico e il “planismo” statuale riconoscevano come riflesso dell’Ottobre nella costruzione del Welfare State. La vita di un militante comunista oggi, quando è venuta meno quella condizione di lotta e di contropotere, disegnata a livello locale ed internazionale, non può che essere qualcosa di profondamente diverso da quel che la mia generazione aveva vissuto – essa si presenta piuttosto come il prodotto di una radicale disidentificazione dai modelli di apparato e di istituzione politica che la prima metà del XX secolo aveva prodotto.

Contemporaneamente però – questo è impressionante – essa mostra l’effetto di una sovra-identificazione retrospettiva con le origini e la forza costituente del movimento comunista. È un vero paradosso quello qui costruito dal sentire e dai comportamenti dei nuovi militanti comunisti: nel momento stesso nel quale essi si sono oggettivamente, storicamente, disincarnati perché è loro sfuggita (con la fine del “secolo breve”) la presa sul terreno della rivoluzione e la capacità di tenerne la temporalità, essi si esprimono in maniere sempre più radicali perché soggettivamente impiantati, immersi nell’ontologia della lotta di classe, in una storicità che da remota si è fatta presente. Non più nomi slavi o cinesi, oggi, ma europei ed americani, messicani e arabi, Seattle e Genova, Tunisi e Madrid, Cairo e New York… e domani? Tira un vento forte, sempre più forte, agli apici del potere capitalista!

Nella ritrovata ontologia, alla ricerca di libertà così come attraverso le lotte salariali, questi militanti producono immaginazione. Il termine è spinoziano: nulla di fantastico o sognante – al contrario una molto più diretta, positiva, concreta capacità d’insistere sull’orizzonte materiale, perché è un’azione autonoma quella che il militante produce nel confronto con la propria storia – egli ne è il responsabile ed a nessun altro lascia o rinvia la responsabilità. Un’immaginazione che possiede sicura fiducia e capacità di decidere le cose da fare, di dare corpo alle cose sperate e la certezza che quando si esprime l’azione del militante si libera presto della solitudine, perché sempre nutrita dalla moltitudine. Per così dire: per rivoltarsi la mia generazione obbediva – ovvero: si muoveva dentro canoni di una consunta tradizione tanto forti quanto prescritti in superficie – una superficie fatta di quadri e scadenze, sindacali e politiche, di contratto e di programma, di rappresentanza e di fiducia. “Superficiali” dunque, perché dalla tradizione comunista spesso riprendevano solo gli orpelli liturgici ed una estraneità soffocante. La nuova generazione invece può accedere all’ontologia del movimento, ad una onesta e schietta percezione di quanto è primario nell’ordine della protesta e della rivendicazione, dell’agire e del costruire. Essa non disobbedisce né obbedisce, ma costruisce liberamente.

Mi spiego: essa non si trova dinnanzi la stessa realtà che i militanti di classe operaia del XIX o XX secolo avevano conosciuto né le medesime trasformazioni: la mutazione che essa subisce non è del tipo di quella che noi subimmo. Se i vecchi modelli organizzativi per noi ad un certo punto non avevano più funzionato, era perché i soggetti nella/della lotta di classe si erano trasformati. Non si lottava più entro il medesimo schema, lo stesso format: l’operaio fordista lottava per rompere il sistema del salario e la schiavitù del tempo della vita cui era sottomesso, e voleva liberarsi muovendosi (liberandosi e costruendosi) dentro/contro lo sviluppo capitalista. Oggi, di contro, non sono più semplicemente la protesta, o l’indignazione, o il rifiuto, o la forza del negativo che sono messi in movimento ma a questi si aggiunge la necessità di costruire un nuovo immaginario di lotta. In buona sostanza: un’immagine di contropotere della classe che coinvolga i soggetti moltitudinari di classe, certo, ma anche di genere, di razza, ecc. Insomma, un progetto che coinvolga produzione e riproduzione delle merci e della società, consumo del vivere e ricambio con la natura – una vera e propria riforma del disegno storico dello sviluppo capitalista. Oggi, le lotte hanno la “forma del progresso” come contenuto. In un modo che esclude l’urgenza dell’accumulazione ed il soffocamento che essa provoca di ogni altro desiderio vitale. È un capitalismo moltiplicato per quattro quello che il militante oggi si trova difronte: deve distruggerlo nella stessa estensione e intensità, ma deve anche ricostruire la vita.

Il paradosso che abbiamo segnalato più sopra (una radicalizzazione comunista proprio alla fine dell’epoca del socialismo, proprio quando sembrava che quella storia fosse terminata), si nutre così di buona sostanza e si approfondisce al massimo. Questo è il punto cruciale su cui hanno origine le nuove generazioni: è dove l’inizio della battaglia non si impianta sulla mancanza, sull’assillo di un vuoto, ma piuttosto sul desiderio di un pieno, di un rigoglio di passioni costruttive. Qui la rivoluzione non si ripete, ma s’inventa.

C’è stato tuttavia, anche per la mia generazione, un momento nel quale la creatività del desiderio di trasformazione dei sottomessi, dei proletari si è data in maniera prepotente: il ’68. La “presa di parola” che ha attraversato le masse lavoratrici e studentesche, è stata possente. Contro la guerra algerina e quella del Vietnam, rivolte antiautoritarie e contro la violenza coloniale si sono sviluppate in maniera formidabile. Perché non hanno portato ad una rivoluzione effettiva – perché “la presa di parola” non è andata al di là della parola? La risposta, si sa, è complicata e varia. È certo tuttavia che la mia generazione non è riuscita a fare delle sue mille battaglie quell’unica – o, meglio, quell’arma – che avrebbe portato un colpo decisivo contro il potere capitalista. D’altra parte, tuttavia, la vittoria del capitale non consistette in un colpo definitivo portato al suo nemico proletario, non fu la vittoria di Pompeo su Spartaco, festeggiata sulla via Appia da centinaia di crocifissioni – no, la vittoria del capitale contro il ’68 (riposando sullo spostamento del terreno di scontro lungo linee di trasformazione tecnologica di rilevanza epocale), se mise in knockdown l’illusione fabbrichista e sindacale di un capitale ormai inetto alla trasformazione, lasciò ancora molto spazio aperto alla lotta e all’immaginazione dei proletari. La fabbrica fordista finì, si aprì l’epoca della “fabbrica sociale” in cui ogni azione produttiva e riproduttiva, ogni momento della vita associata era messo a frutto dal capitale. Ma mentre sfruttamento e alienazione si allargavano a dismisura, lo sfruttato – nella mutazione nel modo di produrre – cominciava a riconoscersi non solo come operatore singolare nella rete sociale della produzione ma anche come partecipe della produzione collettiva del comune. Il lavoro era mutato – socializzato ed astratto, da un lato, come passo in avanti del processo capitalista di sussunzione e di sfruttamento; messo in rete e singolarizzato, dall’altro lato, dando così vita a quell’Individuo sociale sulla cui potenza risiede ormai ogni capacità di valorizzazione. Su questo snodo contemporaneo è quest’ultimo che deve essere “espropriato”, è il comune che la socializzazione del lavoro in rete produce, quel comune della ricchezza che le singolarità compongono – è questo che il capitale deve strappare per continuare a dominare.

Vi fu dunque vittoria capitalista sul ’68? Certo. Ma la trasformazione del modo di produzione produsse un nuovo soggetto. Noi, la mia generazione, siamo stati sconfitti. Non i giovani, che a fine secolo o all’inizio del XXI, riprendevano la lotta, divenuti ormai lavoratori immateriali, appropriatisi di capacità tecnologiche inattese, nuovi attori del dramma della lotta di classe che in questa nuova palestra veniva svolgendosi. La vita di un militante comunista infatti va valutata oggi dentro questo quadro del comune.

Chi oggi lotta, chi vive da militante comunista in questa nuova realtà sociale possiede una nuova immagine della liberazione dallo sfruttamento e la proietta in una buona vita di passioni che ontologicamente parlano di comune e di potere. Confidiamo in questa vera e propria rinascita generazionale, ben più decisamente di quanto avessimo potuto confidare sugli uomini cresciuti nella seconda metà del secolo scorso – sconfitti, trasformati dalla grande rivoluzione tecnologica che subirono… oggi le loro virtù sfumano stanche all’orizzonte.

Perdonatemi questa lunga riflessione quando il mio compito era qui quello di presentare il lavoro di Raul Sanchez Cedillo. Se l’ho posta a prefazione dell’insieme dei suoi saggi politici di questi ultimi anni che qui di seguito si pubblicano, è perché Raul è homo novus a tutti gli effetti. Se io parlo del precariato, lui è precario da sempre; se io scrivo da accademico, lui scrive da militante; se io uso vecchie categorie (talora nell’ossessione di negarle), lui gioca con nuovi concetti e li organizza per nuovi soggetti; se io mi affatico spesso, troppo spesso, attorno a problemi che la memoria di una vita mi ha consegnato (e, esausto, cerco talvolta di scopare il pattume sotto il tappeto), Raul assume di petto i problemi dell’oggi e si nega la possibilità di rinviarne la discussione. Perché per lui il problema politico è lì presente e lui non crede possa essere nascosto neppure quando lo si ritenga insolubile. Fondamentale è la determinazione del problema, la sua presenza, direi, la sua incombenza. L’ontologia prevale sempre sulla retorica. Ho già sostenuto che l’aforisma gramsciano “pessimismo della ragione/ottimismo della volontà” fosse forse ragionevole per la gente della mia generazione, ma che era certamente errato nel definire il compito del militante comunista di oggi. Lo confermo, confrontando quell’adagio alla figura (ed alla volontà) del militante che appare negli scritti qui presentati. Raul sa che la realtà è complessa e talvolta esige decisioni di rottura e in questa prospettiva sa leggere l’evento; ma sa anche – a proposito del ’68, ma soprattutto dopo il 15M, nel post-fordismo, nella società capitalista di estrazione del valore dal comune della società – che la ragione (sia o meno “ottimista”) è sicuramente partecipe dell’enorme potenzialità che il lavoro intellettuale e associato (del comune) crea. Di contro, la volontà – per breve o lieve che sia il suo effetto – deve piuttosto adeguarsi a questa potenza e starci dentro: “pessimismo della volontà” ad attenuare l’“ottimismo della ragione”, prudenza, rifiuto dell’estremismo ideologico e del terrorismo, capacità di immergersi nel reale ed una certa umiltà, fingendo quasi di lasciarsi oltrepassare dal movimento… per afferrarne la tendenza, certo, ma non individualmente, non astrattamente, ma solo in quanto moltitudine. Sono nostri figli questi nuovi militanti comunisti, questi nuovi partigiani resistenti, ma quanto più saggi e politici di noi.


Due o tre brevi note per finire.

In primo luogo, a proposito del tema: organizzazione – che, nella lingua di queste nuove generazioni, non consiste nel costruire gabbie e/o percorsi inefficaci ed istituzionali ma nel definire il rapporto tra forme di vita e modi di espressione politica. Ora, l’intero deposito delle vecchie figure organizzative del politico (parlamentari e/o di derivazione sociologica) viene messo da parte. Il tema della rappresentanza è disseccato e destinato all’inattualità. Eppure nessuno di questi compagni è un anarchico e ancor meno un anarchico individualista. Il militante comunista fonda il suo rifiuto della rappresentanza sulla rivendicazione di una forma di organizzazione politica che è anche forma di vita e di produzione sociale: di vita collettiva, di produzione associata, comune, di costruzione di un mondo “altro” nella lotta anticapitalista. Il comune costituisce ormai la trama del politico, esso è il motore che organizza – che cioè muove le singolarità nell’azione politica, permettendo la compenetrazione delle forme di vita e delle figure/modi di espressione politica.

Si comprende (quando si assumano questi presupposti) quanto abbia potuto essere violento lo scontro determinato dalla scelta fatta da Podemos – contro gli insorti del 15M 2011 – di costruire forme ortodosse di organizzazione partitica. Podemos pretendeva e pretende che la democrazia diretta non sia possibile e che, in ogni caso, per far politica fosse necessario passare attraverso la cruna dell’ago parlamentare. Ma il 15M era insorto facendo giustizia di questa illusione. Sarà possibile, si chiedono allora Raul e i suoi compagni comunisti, dare a quella insorgenza una prospettiva diversa? Ebbene sì: è la via del comune, quella che si deve percorrere, sulla quale si compenetrano il riconoscimento dei beni comuni che organizzano la nostra vita e le nostre economie vitali, e la soggettivazione di questo riconoscimento nell’organizzazione di una Fondazione (non di un Partito) dei comuni. La soggettivazione del comune costruisce la dimensione politica della vita. Di qui la concretezza delle lotte politiche individuate e percorse, che vanno dal salario al reddito generalizzato, dall’affermazione del diritto ad un’abitazione per tutti alla gestione autonoma dal basso del welfare. Sempre facendo agire la propria autonomia organizzativa come contropotere sociale.

Da questa prospettiva, negli scritti che qui presentiamo, la discussione si annoda attorno all’interrogativo se si possano (e come) dare nuove creazioni politiche, nuove istituzioni. Questa domanda Raul cominciava a proporsela già prima del 15M – quando in Europa molto si muoveva e in Spagna poco (così sembrava). Il 15M cambia il paesaggio e sistema gli eventi spagnoli al centro della scena. La lotta si apre, su dall’evento 15M, verso la definizione di un nuovo orizzonte istituzionale. Lo abbiamo già detto, per Raul l’indicazione è chiara: costruiamo una rete di istituzioni municipali, transindividuali, di contropoteri che rompano con il sistema “democratico” octroyé alla caduta del franchismo. Un nuovo “repubblicanesimo” è maturo.

Ma – secondo punto – questa richiesta non sarebbe innovativa se non fosse attraversata dalla consapevolezza che c’è una nuova “antropologia” politica, citoyenne, tale da rendere visibile la possibilità di far funzionare insieme un’efficace potenza costituente ed un’etica solidale, ad ogni livello dell’esercizio del potere e dell’espressione partecipativa dei cittadini alle istituzioni. Dietro al contropotere, alla sua base, a imporre la “democrazia diretta”, devono esserci allora una donna, un uomo, un lavoratore, un produttore, ecc., capaci – in prospettiva sistemica – di reggere il funzionamento dell’istituzione. Il “corpo-macchina” attorno al quale lavora Raul in questa prospettiva, ha ben poco di macchinoso ed astratto, è piuttosto “macchinico” ed aperto al “transindividuale”. Reggere la complessità sistemica e tenerla sempre aperta: questi sono i capitoli nei quali Raul mostra con maggiore evidenza la sua vicinanza all’insegnamento di Guattari e Deleuze e, per altri versi, a Simondon. Ne viene, sempre in questo quadro, il rifiuto strategico di ogni fissazione dei processi di movimento: la rinascita di Podemos come “Partito” e il suo risoluto insediamento nell’“autonomia del politico” sembrano a Raul – così come sono – domesticazioni della potenza politica della moltitudine del tutto illusorie… e presto catastrofiche. Il “corpo-macchina”, la sua estensione moltitudinaria, non possono sopportare queste innaturali torsioni.

Ma allora, terzo punto, come fare politica? Continuando a promuovere un movimento di emancipazione che divenga sempre più forte e prenda coscienza di questo e sappia esprimere la propria forza come contropotere. Di nuovo sembra un proposito contraddittorio: come sarà possibile costruire un contropotere capace di costruire un punto vivo di proposta politica e di agitazione sociale ed eventualmente di esercitare forza insurrezionale, ma anche di mantenere la propria continuità lungo un processo che non ha alcun esito prescritto? Che bensì, sempre di nuovo, spesso in maniera caotica, si presenta come prodotto incerto della lotta di classe? La risposta è qui aperta all’immaginazione libertaria. Non abbiamo tuttavia incertezza nel cogliere una luce di speranza nel confuso orizzonte caratterizzato oggi dal combinato tragico disposto dalla pandemia e dalla crisi delle politiche neoliberali, nel cogliere una luce di speranza e l’emergere dell’evento del comune nello scontro tra disciplina capitalista e potenza delle nuove generazioni.

Speranze, evento del comune, nuove istituzioni? Ma queste sono parole – parole di un vecchio comunista, quale io sono, che qui tenta di inseguire un “fare politica” che gli è divenuto del tutto irraggiungibile. Posso tuttavia testimoniare che in queste pagine di Raul, quanto più egli rifiuta gli insensati percorsi del comando padronale e le illusorie strategie nell’autonomia del politico della nuova sinistra, tanto più coglie con immediatezza i nodi dei processi politici e la natura contraddittoria, sempre più radicalmente critica, della vicenda attuale del neoliberismo politico. Permettetemi di concludere dicendo che quando si legge questo libro, l’allegria di un’intelligenza giovane e vivace ti investe ed illustra la verità della critica. Gioia, immaginazione, speranza sui bordi critici del comando capitalista: questo è il regime di passioni che Raul propone al lettore. Non si tratta solo di intuizioni felici, ma dell’offerta di una grammatica di liberazione.

30 ottobre 2020

 

Lo absoluto de la democracia
Contrapoderes, cuerpos-máquina, sistema red transdividual
Raúl Sánchez Cedillo
Subtextos, mayo 2021
https://transversal.at/books/lo-absoluto-de-la-democracia

Das Absolute der Demokratie
Gegenmächte, Körper-Maschinen, transdividuelles Netzwerksystem

Raúl Sánchez Cedillo
transversal texts, Mai 2021
https://transversal.at/books/das-absolute-der-demokratie