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10 2014

Un rifiuto collettivo

Appello delle ricercatrici e dei ricercatori coinvolte/i nella produzione di sapere sulle migrazioni

Gruppo ricercatrici e ricercatori migrazioni

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Giorno dopo giorno riceviamo i bollettini di quella strana forma di guerra che si sta svolgendo nel Mediterraneo: di quanti siano i migranti salvati, di quanti quelli morti a partire dall’inizio di “Mare Nostrum”, l’operazione “militare e umanitaria” dispiegata nel Mediterraneo come risposta dello stato italiano al naufragio del 3 ottobre 2013, quando l’isola di Lampedusa è stata sommersa da un mare di corpi non più in vita di donne, uomini, bambini. Il calcolo delle percentuali dei morti: è a partire da questo che ci viene chiesto di formarci un’opinione sulle politiche italiane ed europee che si stanno attuando anche in nostro nome.

Si tace, però, sulle scelte e le decisioni che stanno al fondo di queste politiche.

La scelta di impedire di arrivare in altro modo a coloro che stanno fuggendo dagli  innumerevoli conflitti che costellano il nostro presente o dalle dittature dei loro paesi di origine, così come a coloro che si spostano a causa della crisi economica globale o che vorrebbero farlo per il semplice desiderio di viaggiare. La scelta di considerarli come “soggetti da salvare” in mare, la scelta, dunque, di farli diventare tutti “naufraghi” e bisognosi, per poter vivere, di navi militari che concedano loro il respiro di una sopravvivenza “umanitaria”. La decisione di continuare -  persino nell’attuale teatro di molteplici guerre, molte delle quali, inoltre, direttamente o indirettamente anche europee - ad agire i confini dell’Europa a distanza, attraverso il serrato filtro dei visti che impedisce di viaggiare con un regolare mezzo di trasporto e obbliga invece a intraprendere viaggi disseminati da mille ostacoli; meccanismo che sta alla base dello sfruttamento lavorativo e della ghettizzazione dei e delle migranti attraverso la loro “clandestinizzazione”. La decisione di mantenere in vigore il Regolamento di Dublino, che designa il primo paese di arrivo europeo come competente per la richiesta d’asilo, facendo così rimbalzare le persone da una frontiera all’altra, o lasciandole passare solo a intermittenza tra i tunnel degli accordi clandestini tra stati confinanti, come è avvenuto per mesi con i rifugiati siriani ed eritrei a partire dalla stazione di Milano nei loro viaggi verso il Nord Europa.

Certo, dal punto di vista del diritto internazionale è legale che l’Italia e l’Unione europea decidano di gestire in questo modo le proprie frontiere e le migrazioni.  E’ legale il dispiegamento nel Mediterraneo di una forza navale militare con i più sofisticati mezzi di controllo tecnologici - gli stessi usati per le guerre - per salvare coloro a cui si impone di viaggiare da “naufraghi”.

Per l’Unione europea sarà legittima anche l’operazione Triton, che a partire dal mese di novembre sostituirà “Mare Nostrum” senza neppure più l’obiettivo di salvare ma solo con quello di controllare.E sono legittimi, persino, interventi come “Mos Maiorum”, che si richiama ai costumi degli antenati per dispiegare in ogni stato membro dell’Ue un’intensa caccia agli uomini, alle donne e ai bambini “irregolari” con la giustificazione di implementare la conoscenza delle reti che organizzano i viaggi “illegali”; quelle stesse reti prodotte, in realtà,  dalle decisioni politiche di mantenere il sistema dei visti di ingresso. Un intervento che rende evidente, tra l’altro, come dalle operazioni  “militari e umanitarie” si possa passare, con assoluta coerenza e solo con un cambio degli ordini ricevuti, a quelle esclusivamente militari e poliziesche.

Le scelte politiche dell’Unione europea, in tutti questi anni, si sono inoltre concretizzate in nuove declinazioni di logiche coloniali attraverso l’esternalizzazione delle proprie frontiere,  contribuendo così a creare una mobilità selezionata e differenziata in base alle esigenze del capitale e dei singoli stati. Scelte politiche che negli ultimi tempi vengono ripensate come progetto di una “accoglienza esternalizzata” o di un “umanitario a distanza” per le persone in fuga dai molteplici scenari di guerra.

In quanto ricercatrici e ricercatori coinvolte/i in vari ambiti nella produzione di sapere sulle migrazioni ci rifiutiamo di essere complici di tali politiche di cui tutti i giorni constatiamo l’effetto: nessuno spazio di esistenza, per milioni di persone, se non uno spazio sommerso, che sia quello delle acque del mare, dei tunnel di rimbalzo tra i diversi stati europei, delle griglie di Ceuta e Melilla, degli hangar di ammasso libici prima delle traversate.

Per affermare il nostro rifiuto collettivo diffonderemo questo testo leggendolo durante le nostre ore di lezione, durante le diverse riunioni degli organi universitari a cui partecipiamo, nei convegni sulle migrazioni.Non vogliamo che sia un semplice appello e chiediamo ai nostri colleghi e alle nostre colleghe, alle studentesse e agli studenti, di sottoscriverlo con l’impegno di contribuire come noi alla sua diffusione: nelle aule, nei luoghi di studio, durante le lezioni, nelle riunioni, nelle conferenze, nelle assemblee. Chiediamo, inoltre, che il testo venga diffuso nelle Università degli altri stati dell’Unione europea e anche portato fuori dall'accademia, in tutti i luoghi e i contesti in cui oggi si produce discorso sulle migrazioni.

Un rifiuto collettivo da parte di chi lavora nell’Università, uno dei luoghi più significativi di questa produzione di saperi e della loro complicità con i meccanismi di confinamento e con le politiche di governo della mobilità.

(ottobre 2014)

Primi/e firmatari/e: Roberto Beneduce, Giulia Borri, Paolo Cuttitta, Elena Fontanari, Filippo Furri, Glenda Garelli, Margherita Grazioli, Chiara Marchetti, Miguel Mellino, Sandro Mezzadra, Irene Peano,  Mimmo Perrotta, Lorenzo Pezzani, Barbara Pinelli, Cecilia Rubiolo, Devi Sacchetto, Alessandra Sciurba, Federica Sossi, Martina Tazzioli

http://www.change.org/p/a-tutte-e-tutti-coloro-che-vogliono-firmare-un-rifiuto-collettivo-appello-delle-ricercatrici-e-dei-ricercatori-coinvolte-i-nella-produzione-di-sapere-sulle-migrazioni