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06 2009

La potenza del sapere vivo

Crisi dell’università globale, composizione di classe e istituzioni del comune

Gigi Roggero

I clienti della compagnia telefonica 3 che avessero bisogno dell’assistenza online, troveranno nell’area dedicata del sito una curiosa sorpresa. A rispondere non sono infatti dei tecnici pagati dall’azienda, bensì – attraverso un forum libero – altri clienti. 3 mette in palio per le migliori risposte modesti premi e cotillon: ricariche o telefonini, peraltro già acquisibili in comodato gratuito attraverso le offerte promozionali. Soprattutto, l’impresa stila delle classifiche mensili al cui interno i cooperanti del forum vedono riconosciuto il proprio valore e merito. Se, tuttavia, si invia un post in cui – dopo aver esposto il problema e ringraziato gli utenti per la loro bravura – si insinua il dubbio che quello di cui 3 utilizza è un lavoro non pagato, dopo pochi minuti il messaggio verrà cancellato dal libero spazio del forum.

Questo aneddoto, che rappresenta il funzionamento di un modello imprenditoriale tendenzialmente egemone non solo nel campo delle telecomunicazioni, ci fornisce gli elementi centrali di analisi del capitalismo contemporaneo. Mostra, innanzitutto, la natura ideologica della figura del prosumer, diffusa nella narrazione postmoderna sulla società della conoscenza: non è dunque il lavoratore che diventa consumatore, ma è al contrario il consumo che viene messo al lavoro. Non solo: è proprio sui soggetti della cooperazione sociale che viene scaricato il taglio dei costi del lavoro, riproducendo di continuo al suo interno linee di competizione individualistica – è questo il senso delle classifiche mensili di 3. Vengono, cioè, continuamente separati dall’appropriazione comune di ciò che producono in comune. Del resto, come da vari anni i più avveduti teorici neoliberali della rete vanno dicendo, la proprietà intellettuale rischia di diventare un blocco per l’innovazione e la produzione dei saperi, risorsa centrale del capitalismo contemporaneo. Se vuole sopravvivere, allora, è necessario costruire una “produzione orizzontale basata sui beni comuni”[1], mettendo a valore proprio quelle caratteristiche esaltate nei movimenti mediattivisti: condivisione, centralità delle strategie non proprietarie, eccedenza della cooperazione rispetto al mercato. L’economia politica dei saperi può sopravvivere solo in un “capitalismo senza proprietà” – esemplificato dal Web 2.0 e dallo scontro tra i modelli di Google e Microsoft –, ossia catturando ciò che viene prodotto in comune. Il problema non è allora la purezza della volontà, la coscienza critica o la moralità del proprio agire, oggetto del contendere tra attivisti dell’open source e del free software. Il problema è lo sfruttamento. È in questo scarto, decisivo, che si disegna una mossa marxiana nei movimenti sociali: nel passaggio dalla critica morale alla critica del rapporto sociale capitalistico.

La conclusione dell’aneddoto, infine, ci illustra la verità ultima del capitale, che può forse fare a meno della proprietà, ma certamente non del comando. Le uniche figure pagate dalle imprese, qui esemplificate dal caso di 3, sono infatti i nuovi sorveglianti e spioni nelle “fabbriche della conoscenza”. Figure parassitarie, senza altra funzione se non quella di controllare la continua separazione dei lavoratori dal comando collettivo sul loro prodotto, di vigilare sullo sfruttamento e sui dispositivi di segmentazione all’interno della cooperazione sociale.

 
Le nuove coordinate spazio-temporali del capitalismo cognitivo

Nel luglio del 2007, pochi giorni dopo le impressionanti code di consumatori in fila nelle città americane per comprare l’iPhone, “The New York Times” vi ha dedicato un articolo significativamente titolato Silent Hands Behind the iPhone. Vi si illustra come la sua produzione non sia riducibile alla classica divisione di software e componentistica tra paesi del “primo” e del “terzo mondo”. Le imprese di Taiwan giocano un ruolo fondamentale nell’innovazione tecnologica, sono le mani (e i cervelli) silenziosi che stanno dietro al “gioiellino” della Apple. D’altro canto, la parte di progettazione sviluppata sul suolo americano si basa in buona misura sul lavoro dei “tecnomigranti” indiani. È il caso, esemplare in quanto affatto comune, di Sajit[2], ingegnere indiano trasferitosi negli Stati Uniti attraverso un body shop, sistema di intermediazione che alloca il lavoro a basso costo nei mercati dell’hi-tech[3]. Approdato in California dopo aver lavorato in un’azienda di software a Houston, Sajit – come molti suoi connazionali – fa anche il taxista, strada temporanea per realizzare il proprio “sogno americano”. Sogno di difficile realizzazione, per Sajit così come per gli ingegneri bianchi della Silicon Valley colpiti da un vero e proprio déclassement quando le loro imprese hanno deciso per l’outsourcing a Bangalore, in India appunto.

Sono probabilmente sufficienti questi brevi flash per mettere in discussione la tradizionale immagine della divisione internazionale del lavoro, che affonda le proprie radici nei principi dell’economia politica elaborati da Ricardo e nell’analisi smithiana della ricchezza delle nazioni, per poi essere ricalcata sulla divisione geografica tra zone “avanzate” ed “arretrate”. Un’immagine impregnata della violenza dello Stato e del colonialismo, e infranta dalle pratiche di libertà e dai movimenti del lavoro vivo. Sono state le lotte che hanno costretto il capitale a farsi globale, che hanno ecceduto i confini, che ne hanno messo in tensione le coordinate spazio-temporali. Dentro il mutamento di tali coordinate, è piuttosto discutibile l’idea che ci sia un “postfordismo” nel centro e un “fordismo periferico”[4]. Da un lato, il continuo proliferare di sweatshop, settori produttivi informali o condizioni semi-schiavistiche di lavoro non nelle “periferie” del pianeta, bensì a New York o Los Angeles, impedisce di consegnare tali modelli alla preistoria del capitalismo o a zone remote. Questa preistoria, infatti, non solo irrompe continuamente nel pieno del suo sviluppo, ma ne costituisce la condizione di possibilità anche nei suoi supposti “centri”. Dall’altro, perché la diminuzione dei posti di lavoro nel settore manifatturiero in “occidente” non è attribuibile allo spostamento di massa verso paesi come la Cina: va invece ricercata in un «aumento della produttività del lavoro industriale. In Cina la forza-lavoro impiegata nella manifattura è circa sei volte superiore a quella americana, ma produce non più della metà del valore in dollari dei beni industriali degli Stati Uniti. D’altra parte, dall’inizio degli anni novanta, anche in Cina, a Singapore, nella Corea del Sud o a Taiwan, l’occupazione nel settore industriale stava diminuendo»[5].

Dunque, i confini spaziali e temporali si scompongono e si ricompongono su nuove coordinate, si dissolvono e si moltiplicano[6]. Laddove non c’è più fuori, diventano immediatamente confini salariali e dispositivi di segmentazione dentro il mercato del lavoro globale. La dialettica tra centro e periferia è saltata: da Shangai a Venezia, da Hyderabad alla Silicon Valley, da San Paolo a Johannesburg si può osservare – con gradazioni estremamente differenti – l’intero spettro delle forme contemporanee della produzione e del lavoro. Tuttavia, occorre precisare. Il venir meno della dialettica centro-periferia, determinato innanzitutto dalla mobilità del lavoro vivo, non significa un piano di indistinzione. Piuttosto, essa descrive la compresenza di ciò che una volta si definiva “primo” e “terzo mondo” all’interno delle coordinate spazio-temporali della metropoli, in quanto luoghi immediatamente globali. Qui dentro convivono e si rideterminano continuamente centro e periferia, forme di produzione “avanzate” e “arretrate”, modalità di estrazione di plusvalore relativo e assoluto, processi di sussunzione reale e formale, “illuminate” – per dirla con il Marx dei Grundrisse – da un nuovo paradigma di accumulazione. L’aggettivazione cognitivo del capitalismo contemporaneo costituisce esattamente questo paradigma[7].

 
Classe creativa e precarietà: per una critica della politica del riconoscimento

Parlando di lavoro cognitivo, è necessario precisare ulteriormente. Vogliamo infatti qui mettere in tensione due concetti, che in parte si sovrappongono e in parte si distinguono: da un lato la cognitivizzazione come processo di trasformazione complessivo, filigrana e “illuminazione generale” attraverso cui leggere l’intera composizione del lavoro e i nuovi processi di gerarchizzazione; dall’altro, il lavoro cognitivo come individuazione di figure specifiche. Non è affatto la stessa cosa lavorare in una fabbrica o in un centro di ricerca universitario: tuttavia, ad essere comune è il tratto attorno a cui si organizza la nuova divisione cognitiva del lavoro, ossia la finalizzazione alla produzione di saperi, all’innovazione permanente e alla valorizzazione dello sviluppo tecnologico. In questo mutamento, la stessa definizione dello skill tende a perdere valore descrittivo per assumere esclusivamente una funzione di divisione, ovvero di controllo. Basti pensare – ritornando all’esempio del circuito globale della produzione hi-tech – al già citato caso dei “tecnomigranti” indiani e di Sajit: la sua definizione in quanto lavoratore high skill o low skill non risponde tanto all’attività svolta e alle capacità che possiede, quanto innanzitutto alle necessità di ricatto delle imprese attraverso la politica dei visti. Anche gli skill, dunque, funzionano come moltiplicazione dei confini salariali e di segmentazione della forza lavoro globale.

Alla luce di ciò, risulta piuttosto inquietante il successo che in vari ambiti di movimento hanno avuto categorie come quella di “classe creativa”, forgiata proprio dai consulenti della cattura capitalistica con l’esplicito scopo di costruire gerarchie e confini artificiali dentro la metropoli[8]. Quand’anche si volessero scegliere i termini di cognitariato, classe hacker o addirittura quello storicamente impegnativo di ceto medio, il discorso non cambia: il problema è pensare che la definizione delle soggettività sia desumibile semplicemente dalla struttura del mercato del lavoro e in particolare, trattandosi di analisi che si concentrano sull’emergere delle dinamiche di intellettualizzazione della produzione, dalle stratificazioni costruite dalla distribuzione del sapere sociale incorporato nel lavoro. Benché queste formulazioni si differenzino tra loro, ci troviamo comunque di fronte al tentativo di individuare il soggetto della trasformazione a partire da un’analisi delle segmentazioni capitalistiche della composizione sociale: il primo non sarebbe altro che un calco sociologico delle seconde. Non resterebbe quindi che un problema di assunzione di coscienza, come nel già ricordato dibattito tra open source e free software. E i referenti sono esclusivamente i lavoratori appartenenti ai settori che mobilitano in modo intensivo le conoscenze, dall’arte alla ricerca, dall’insegnamento alla finanza: sia Richard Florida, vero e proprio consulente globale della cattura capitalistica, sia molti attivisti cercano di instillare loro la coscienza di essere i portatori di una nuova concezione del lavoro e possessori di un “capitale umano” in grado di conferire sviluppo e dinamicità all’economia postfordista. All’uno e agli altri è così sufficiente disvelare – attraverso i miliardi delle multinazionali, o le politiche artigianali dell’immaginario comunicativo – ciò che è già sociologicamente dato e tecnicamente costruito dalle gerarchie capitalistiche. Ovvero, ciò che necessita solo di riconoscimento. Laddove, com’è noto, la richiesta di riconoscimento implica sempre il riconoscimento del soggetto a cui si rivolge. Dunque, assistiamo da un lato alla naturalizzazione delle stratificazioni all’interno del mercato del lavoro; dall’altro, alla costruzione di identità dei singoli segmenti, sulla base della posizione occupata nelle gerarchie capitalistiche. Il concetto di classe viene così dissociato dalle resistenze e dalle lotte che invece lo definiscono. I conflitti non spariscono, ma diventano semplicemente l’esito di una non meglio specificata presa di coscienza che agirebbe nel senso di ridurre la distanza tra identità professionale e status sociale.

Su queste basi, possiamo indagare l’ombra inquietante del “giustizialismo” che si allunga sulla composizione del lavoro precario e attraversa anche i suoi movimenti. In tempi di crisi, non è un dato nuovo: da sempre invocare la forca per i corrotti è il modo migliore per salvare un sistema che esso stesso produce corruzione, offrendo una valvola di sfogo a chi non vede ricompensate le proprie capacità e bisogni. Oggi per i “creativi” quest’ombra si esprime attraverso il linguaggio della “meritocrazia”, ossia la frustrazione per il mancato riconoscimento del valore dei titoli di studio o del “capitale umano” sul mercato del lavoro. Ma, attenzione, non si tratta di “falsa coscienza” o di semplice ideologia, a meno che con questo termine non si intenda un dispositivo di organizzazione del reale. Infatti, il nocciolo materiale di questa espressione soggettiva è il declassamento. Dietro, vi è la questione – altro tema su cui praticare inchiesta – di come si produca e si catturi il valore del lavoro cognitivo, e di chi decide su di esso. La “meritocrazia”, allora, non è altro che il sistema di organizzazione retorica dell’artificialità della misura. La richiesta di riconoscimento del proprio “valore”, in quanto individuo o segmento di classe, rischia di sfociare nella legittimazione e nel rafforzamento delle gerarchie plasmate da quella misura artificiale. Il problema, per dirla in altri termini, non è il mancato riconoscimento del merito, ma è l’imposizione della legge del valore e del lavoro salariato, che oggi assume la forma della precarietà.

Quindi, dopo aver rovesciato il linguaggio del “giustizialismo” e della “meritocrazia” per afferrarne il suo nocciolo materiale, è necessario interrogarsi sul punto di blocco proprio dei discorsi sulla precarietà. Talora abbiamo assistito a un suo pericoloso scivolamento nel linguaggio di un segmento del lavoro – la “classe creativa” appunto, o un ceto medio declassato – che tenta esclusivamente di difendersi dai processi di proletarizzazione. Ovvero la retorica di una “frazione dominata della classe dominante”, sostiene Andrew Ross parafrasando Bourdieu[9]. Così, dopo aver produttivamente messo in discussione categorie ossificate nella grammatica della sinistra e dell’ortodossia marxista, si tratta ora di ripensarle alla radice in un quadro definitivamente mutato: classe e lavoro vanno dunque interrogati dentro il capitalismo cognitivo, e la sua crisi. Almeno se non si vuole rischiare che la precarietà diventi vocabolo edulcorato che ammorbidisce la dura materialità dei rapporti di sfruttamento, così come il neoliberalismo è spesso servito ai movimenti per non nominare il reale nemico, cioè il capitale.

 
La produzione del sapere vivo nella edu-factory

A questo punto, dopo aver tracciato le nuove coordinate spazio-temporali del capitale e il mutare dei suoi paradigmi, dobbiamo ancora una volta seguire Marx e addentrarci nel “segreto laboratorio della produzione”: è qui che, svelando “l’arcano della fattura del plusvalore”, si può vedere “non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale”[10]. Dentro i processi di cognitivizzazione, ciò significa indagare la produzione del sapere vivo[11]. Questa categoria, com’è evidente, richiama in modo diretto il concetto marxiano di lavoro vivo, che si definiva in rapporto al lavoro morto, oggettivato cioè nel sistema delle macchine. La categoria di sapere vivo ha l’obiettivo di indicare la nuova qualità della forza lavoro cognitiva e, se si vuole, le inedite determinazioni della tradizionale contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. È evidente, infatti, come anche per Marx il sapere fosse centrale nella relazione tra lavoro vivo e lavoro morto. Tuttavia, oggettivandosi nel capitale, finiva per essere completamente separato dall’operaio che lo produce: “La scienza come prodotto intellettuale generale dell’evoluzione sociale appare essa stessa come direttamente incorporata al capitale (e la sua applicazione in quanto scienza al processo di produzione materiale appare come distinta dal sapere e dalle capacità del singolo operaio), e lo sviluppo generale della società, essendo sfruttato dal capitale – e agendo come forza produttiva del capitale – di contro al lavoro, appare a sua volta come sviluppo del capitale, e ciò tanto tempo più in quanto, per la grande maggioranza, gli si accompagna di pari passo uno svuotamento della capacità lavorativa[12].

La categoria di sapere vivo non si limita a descrivere il ruolo centrale assunto dalla scienza e dai saperi nel processo produttivo, ma mette a fuoco la loro immediata socializzazione e diretto incorporamento nel lavoro vivo[13]. Il lavoro intellettuale – la cui composizione è fin dagli anni Sessanta e Settanta innervata dalle lotte sulla scolarizzazione di massa e dalla fuga dalle fabbriche e dalle catene del salario[14] – da una parte è colpito dalla disgrazia di diventare lavoratore produttivo, dall’altra tende ad autonomizzarsi dal sistema automatico di macchine[15]. Il general intellect, allora, non si oggettiva più (quantomeno in processi temporalmente stabili) nel sapere morto, ma si forma precipuamente nella cooperazione sociale e nella produzione del sapere vivo: è inseparabile dai soggetti che lo compongono. Per dirla in altri termini: il capitale variabile tendenzialmente assorbe al suo interno il capitale fisso. Così, la necessità di ridurre il sapere vivo a sapere astratto, ovvero la possibilità di misurarlo, costringe il capitale a imporre unità di tempo completamente artificiali, di cui l’università e il sistema formativo ci forniscono un’ampia gamma. L’eccedenza diviene quindi tratto costitutivo della produzione cognitiva. La crisi della legge del valore si incarna nei movimenti di figure concrete, nella permanente tensione tra autonomia e subordinazione, tra autovalorizzazione ed enclosure.

Su queste basi, la produzione del sapere vivo è qui intesa – prendendo spunto da un importante testo di Jason Read[16] – nel duplice significato del genitivo, cioè da un lato come costituzione del sapere vivo, dall’altro come sua potenza produttiva, non solo per il capitale ma anche autonomamente. In altri termini, nel segreto laboratorio della produzione si dischiude la costituzione materiale del sapere vivo tra processi di normalizzazione, cattura e valorizzazione capitalistica, e forme di autonomia e autovalorizzazione – singolari e collettive – dei soggetti viventi della produzione. Possiamo cogliere l’arcano dalla fattura del plusvalore dentro la produzione della soggettività. Da questo punto di vista, la distinzione e successione proposta dagli studi sul potere di Foucault tra lotte contro lo sfruttamento e lotte sui processi di soggettivazione va oggi completamente riformulata. Non c’è sfruttamento oggi senza individuazione, senza cioè la rottura delle trame cooperative che caratterizzano la produzione del comune. Dunque, le lotte sulla produzione della soggettività e del sapere vivo sono immediatamente lotte contro lo sfruttamento, e viceversa. Meglio ancora, sono la forma concreta attraverso cui si riqualifica la contemporaneità della lotta di classe.

In questo quadro, può essere l’università il luogo privilegiato per inchiestare la produzione del sapere vivo? Il progetto transnazionale edu-factory (www.edu-factory.org) scommette di sì. Tuttavia, meglio precisare. A partire dal nome: l’università è una fabbrica? Certamente no, se osserviamo il suo concreto funzionamento: esiste infatti una differenza specifica e irriducibile tra l’università e la fabbrica taylorista, tra la produzione di ricerca e formazione e l’organizzazione scientifica del lavoro attraverso la misurazione dei tempi delle singole mansioni, la velocità di esecuzione e la serializzazione. Se la produzione dei saperi non è misurabile, se non artificialmente, è evidente che un’organizzazione tayloristica della loro produzione (attraverso cronometri, prevedibilità e ripetitività dei gesti, o catene di montaggio virtuali) non può affatto darsi. L’allusione è tuttavia corretta se con edu-factory indichiamo il divenire immediatamente produttivo dell’università, i suoi tratti peculiari di organizzazione, controllo e disciplinamento del lavoro vivo, il mutamento del suo ruolo nel capitalismo contemporaneo. La crisi dell’università moderna, accompagnata dalla dissoluzione della dialettica tra pubblico e privato, è infatti irreversibile. Le categorie di “università-metropoli” o di “global university[17] non indicano una nuova fase: sono piuttosto un’ulteriore definizione della crisi, che evidenziano il piano di tensione tra l’eccedenza del sapere vivo e la cattura capitalistica. Per dirla in altri termini: proprio nel momento in cui i saperi diventano centrali nel sistema produttivo e nelle forme di accumulazione del capitale, l’università deve rinunciare non solo al ruolo che ha avuto in epoca moderna, ma alla possibilità di occupare la funzione che una volta era della fabbrica. Non si tratta semplicemente di un problema di organizzazione spaziale o di acquisizione di un principio federativo in grado di salvaguardare la comunità accademica guidandone il passaggio alla “multiversity”. L’università può essere paradigmatica nell’analisi delle trasformazioni contemporanee proprio nella misura in cui perde la sua centralità come luogo di trasmissione della conoscenza: invece di assumere una nuova collocazione, pervade l’intero spazio-tempo metropolitano, plasma le nuove forme del lavoro cognitivo, modella le possibilità dell’organizzazione di impresa. L’aziendalizzazione dell’università è così intrecciata ad una sorta di universitarizzazione dell’azienda[18].

Allora, ciò che ci interessa è innanzitutto afferrare l’urgenza politica che in quell’allusione è contenuta: come ci si può organizzare nella crisi dell’università come se fosse una fabbrica? Meglio ancora: come situare il nodo politico che l’evocatività del paragone tra università e fabbrica sottende, a partire dall’incommensurabile differenza del loro concreto funzionamento e delle rispettive coordinate spazio-temporali? In altre parole: come ripensare il problema dell’organizzazione dopo l’esaurimento delle sue forme tradizionali, cioè sindacato e partito? Come ripensarlo, soprattutto, completamente all’interno della nuova composizione del lavoro vivo, laddove nessun fuori è più, finalmente, praticabile?

 
Composizione di classe e produzione del comune

Quando si parla di eccedenza non si vuole qui sottendere una caratteristica esclusiva del lavoro cognitivo o della produzione di saperi: al centro del modo di produzione capitalistico, infatti, ci sono sempre dei rapporti di cooperazione che sono produttivi non solo di capitale, ma anche delle possibilità materiali di eccederlo. Il problema è allora coglierne la specificità nelle contemporanee forme del lavoro e nel rapporto di capitale, al cui centro vi è la produzione di sapere in quanto risorsa produttiva e mezzo di produzione. Una produzione che non è misurabile, eppure viene continuamente misurata, per creare artificialmente scarsità laddove vi è ricchezza e abbondanza. Come sosteneva Marx nell’ormai celebre Frammento sulle macchine, nel momento in cui il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio dominante della produzione, quando “lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect[19], allora diventa question de vie et de mort per il capitale continuare a misurare il tempo di lavoro. Va mantenuta la vigenza della legge del valore, laddove essa ha cessato di essere valida. In altri termini, proprio in quanto ha cessato di essere (anche) misura della produttività, il tempo di lavoro diventa (esclusivamente) misura politica dello sfruttamento.

Allora, nel momento in cui “il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa”[20], l’eccedenza va ricercata dal punto di vista soggettivo, nei termini della resistenza e della separazione, ovvero nell’organizzazione dell’autonomia del sapere vivo. Va ricercata, quindi, nei processi di soggettivazione dentro la composizione di classe. In questa categoria, forgiata dall’operaismo[21], non vi è nessuna idea di un’originaria unità del lavoro divisa dal capitalismo e perciò da ricomporre, né una coscienza da disvelare ai fini di ricongiungere la classe in sé e la classe per sé. Tra composizione tecnica, basata sull’articolazione e gerarchizzazione capitalistica della forza lavoro, e composizione politica, in quanto processo di costituzione della classe come soggetto autonomo, non vi è né simmetria né rovesciamento dialettico, perché la classe non preesiste alle materiali e contingenti condizioni storiche della sua formazione soggettiva. La sua formazione è al contempo la posta in palio e la condizione di possibilità di un conflitto, anziché un dato a priori. Da questa angolazione, osserviamo un pericoloso cortocircuito tra chi legge esclusivamente la composizione tecnica, confinando come abbiamo visto gli elementi alla richiesta del riconoscimento e del merito, e chi immagina una composizione politica avulsa dai processi di gerarchizzazione, che oggi prendono il nome di cognitivizzazione. In un caso si legittima la gabbia delle segmentazioni del mercato del lavoro, nell’altro se ne esce in modo ideologico. In entrambi i casi, si smarrisce la determinazione marxiana del capitale in quanto rapporto sociale.

Tuttavia, quella di composizione di classe è una delle categorie dell’operaismo non riproponibili nelle forme in cui era stata pensata e utilizzata. Da un lato, come abbiamo già evidenziato, per la fine della centralità della fabbrica, non solo come luogo di organizzazione del lavoro, ma innanzitutto come paradigma delle coordinate spazio-temporali della produzione di soggettività. Dall’altro, la permeabilità tra vita e lavoro rende la classica distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo inservibile dopo il definitivo tramonto della centralità della classe operaia, che del lavoro produttivo costituiva la figura politica. Ma per Marx tale distinzione aveva non solo una funzione descrittiva, ma di individuazione del nemico. Non criterio sociologico, ma dispositivo di attacco. Esauritosi il primo, dobbiamo ripensare radicalmente il secondo: come il caso di 3 ci insegna, la produttività non è data dall’essere o meno salariati, ma è definita dal rapporto conflittuale tra il comune e la cattura.

Però, laddove il comune diventa la trama dell’organizzazione della cooperazione sociale, esso assume un doppio statuto: è al contempo ciò che il lavoro vivo produce e ciò che il capitale cattura, la base materiale di un nuovo rapporto sociale e l’obiettivo dell’accumulazione attraverso la rendita. È, insomma, la minaccia mortale e la disperata risorsa per un capitalismo in crisi. Il comune, che si definisce nel rapporto tra singolare e molteplice, deve essere continuamente tradotto dal capitale nel linguaggio astratto del valore e della misura. La pienezza del comune deve essere tradotta nel linguaggio vuoto dell’universale, smettendo di essere comune. In altri termini, le differenze – che plasmano una composizione del lavoro globale costitutivamente eterogenea – non vengono negate, ma articolate in senso disgiuntivo, nella misura in cui le singolarità vengono ricondotte all’identità della loro presunta appartenenza (etnica, sessuale, comunitaria, territoriale, di gruppo sociale, occupazionale ecc.). Riprendendo ancora le categorie classiche dell’operaismo che ci proponiamo di ridefinire, potremmo in prima battuta sostenere che è questa la composizione tecnica che informa i processi di inclusione differenziale nel mercato del lavoro cognitivo, ovvero l’articolazione capitalistica di risposta alla crisi di governabilità determinata dalle lotte di una composizione politica specifica. Nelle maglie della composizione tecnica il conflitto non manca, ma come abbiamo visto corre il rischio di non uscire fuori dalla politica del riconoscimento, vale a dire della rivendicazione della propria posizione – in quanto differenza – nella gerarchia capitalistica. La competizione tra differenze è in questo senso una forma di neutralizzazione della lotta di classe, di conservazione e riproduzione delle segmentazioni esistenti. Possiamo quindi ridefinire la composizione politica come un processo di “disidentificazione”[22], in quanto sradicamento nei confronti della naturalità di una posizione occupata nei meccanismi di inclusione differenziale: è la disarticolazione della composizione tecnica e la nuova composizione su una linea di forza che trova la sua definizione nella produzione del comune. In questo senso parliamo di divenire classe, come posta in palio di un processo di lotta, non sua oggettiva pre-condizione.

Attenzione, però: insistere sulla non simmetricità tra composizione tecnica e politica non significa la completa dissociazione tra le due categorie. In quanto processi, esse sono infatti continuamente formate e messe in tensione dalle molteplici forme di produzione della soggettività e dai meccanismi della valorizzazione capitalistica. Ciò significa che la composizione tecnica non è solo strutturata dal dominio del capitale, ma è la fotografia temporanea di una dinamica conflittuale, perciò incessantemente aperta alla sua sovversione. Allo stesso modo, la composizione politica non è per definizione estranea a istanze corporative o a nuove chiusure identitarie: indica piuttosto il campo di potenza determinato dalle lotte e dalla produzione del comune. Il nodo della questione, allora, è l’individuazione – situata e storicamente determinata – del rapporto aperto e reversibile tra i due processi. Anche la cognitivizzazione del lavoro, del resto, esprime la tensione tra l’autonomia conquistata dal sapere vivo e la riarticolazione del comando capitalistico, disegnando un piano in cui la composizione politica precede e determina quella tecnica, ma non è del tutto separabile da essa. Tale rapporto, dunque, da un lato si confonde e si complica nella misura in cui è definitivamente finita la linearità spazio-temporale del rapporto tra operai e capitale centrato sulla fabbrica “fordista”; dall’altro, esso è ora completamente interno allo scontro tra autonomia e subordinazione, tra produzione del comune e cattura capitalistica.

Proprio qui, allora, troviamo l’arcano della fattura del plusvalore, e la base materiale di un nuovo rapporto sociale basato sulla reinvenzione della libertà e dell’eguaglianza. Ma per poterla segmentare e comandare, il capitale deve continuamente bloccare la potenza cooperativa del sapere vivo – cos’altro sono il regime della proprietà intellettuale o la precarietà, oppure la figura del controllore che abbiamo visto all’opera nell’esempio di 3? E cos’altro è la crisi contemporanea se non un elemento permanente di quella finanziarizzazione che, lungi dal contrapporsi a una qualche “economia reale”, è invece la forma adeguata e perversa di un sistema che si riproduce nella cattura del comune, ovvero alimentandosi nell’irreversibile dipendenza dal suo nemico mortale[23]? Qui, in quello che alcuni teorici vicini a “The Economist” hanno definito “comunismo del capitale”, si riqualifica, in termini completamente nuovi, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. È qui che la crisi non è più solo dato strutturale ciclico, ma diventa elemento permanente e insuperabile delle forme capitalistiche di accumulazione: il capitale è costretto a limitare la produzione di ricchezza che non riesce a catturare. Con buona pace dei teorici “decrescitisti”, lo sviluppo capitalistico dipende proprio dalla sua politica della decrescita. Cessata finalmente ogni utopia di un’isola felice al riparo dal valore di scambio, o dell’esistenza di beni naturali da difendere, la critica antagonista dello sviluppo diviene immediatamente liberazione della potenza autonoma delle forze produttive. Ciò significa costituzione delle istituzioni del comune, ovvero la capacità di organizzare l’autonomia e la resistenza del sapere vivo, determinare comando e direzione collettiva all’interno della cooperazione sociale, produrre norme comuni nella destrutturazione dell’università esistente.

È questa la sfida che si apre dentro i processi di “aziendalizzazione” e formazione di una global university. Come i movimenti e le lotte in Europa e a livello globale mostrano, nessuna nostalgia o difesa dell’esistente è consentita: laddove pubblico e privato si presentano, finalmente, come le due facce della stessa medaglia capitalistica. La posta in palio è oggi molto più alta: ad essere messo in crisi in via definitiva è lo statuto epistemologico del sapere su cui si è retta l’organizzazione delle discipline, così come i suoi nuovi codici di potere dell’inter- e multi-disciplinarietà. La questione è allora, immediatamente, una nuova organizzazione del sapere, la cui direzione e controllo non è più esterna ma immanente alla composizione del lavoro: è la costruzione, hic et nunc, di un’università del comune, che significa al contempo appropriazione collettiva di ciò che la potenza del sapere vivo produce e che è congelato nell’esausta dialettica tra pubblico e privato.

Però attenzione: non c’è qui nessuna esaltazione dell’evento, o peggio ancora di un evento senza processo. Il nodo è istituire un nuovo rapporto temporale tra evento e sedimentazione, tra crisi e decisione, tra processo costituente e forme politiche concrete, tra rottura e organizzazione. Assumendo che l’evento è un risultato, mai un’origine. Il principio è sempre la resistenza e l’organizzazione della produzione del comune, ovvero un pensiero istituzionale del presente e dell’evento stesso. Un rapporto che, nella misura in cui è immanente alla composizione di classe e alla temporalità del conflitto, è continuamente attraversate dalla possibilità della loro sovversione. E poiché la critica dei saperi diviene oggi immediatamente critica dell’economia politica, i conflitti sulla formazione sono pienamente conflitti sul lavoro, l’eccedenza e la dismisura del sapere vivo possono cessare di essere semplice dati descrittivi, per conquistare la potenza costituente di nuove istituzioni. Per ripensare, radicalmente e di nuovo, la lotta di classe e il comunismo nella contemporaneità.

 



[1] Yochai Benkler, La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà (2006), trad. it. Università Bocconi Editore, Milano 2007.

[2] Aihwa Ong, Neoliberalism as Exception: Mutations in Citizenship and Sovereignty, Duke University Press, Durham, NC – London, 2006.

[3] Cfr. Xiang Biao, Global “Body Shopping”: An Indian Labor System in the Information Technology Industry, Princeton University Press, Princeton 2007.

[4] David Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente (1989), trad. it. Il Saggiatore, Milano 1997.

[5] Christian Marazzi, Capitalismo digitale e modello antropogenetico di produzione, in F. Chicchi – J.-L. Laville – M. La Rosa – C. Marazzi (a cura di), Reinventare il lavoro, Sapere 2000, Roma 2005, p. 110.

[6] Cfr. Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Confine come metodo, ovvero, la moltiplicazione del lavoro, in transversal 06/08, “borders, nations, translations”, http://eipcp.net/transversal/0608/mezzadraneilson/it.

[7] Cfr. Carlo Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006.

[8] Alberto De Nicola – Gigi Roggero – Benedetto Vecchi, “Contro la creative class”, in Posse, ottobre 2007, pp. 84-94; transversal 02/07, “creativity hypes”, http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it.

[9] Andrew Ross, Nice Work If You Can Get It: Life and Labor in Precarious Time, New York University Press, New York-London 2009.

[10] Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1994 (1867), Libro primo, p. 208.

[11] Gigi Roggero, La produzione del sapere vivo. Crisi dell’università e trasformazione del lavoro tra le due sponde dell’Atlantico, ombrecorte, Verona 2009.

[12] Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, 1933, trad. it. Etas, Milano 2002, p. 76.

[13] Cfr. Romano Alquati (a cura di), “L’università e la formazione: l’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo”, in Aut Aut, n. 154, luglio-agosto 1976.

[14] Cfr. Romano Alquati – Nicola Negri – Andrea Sormano, Università di ceto medio e proletariato intellettuale, Stampatori, Torino 1978.

[15] Cfr. Hans Jürgen Krahl, Costituzione e lotta di classe (1971), trad. it. Jaca Book, Milano 1973.

[16] J. Read, The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the Present, State University of New York Press, Albany, 2003.

[17] Cfr. collettivo edu-factory (a cura di), Università globale. Il nuovo mercato del sapere, Manifestolibri, Roma 2008.

[18] Cfr. A. Ross, L’ascesa della Global University, in collettivo edu-factory (a cura di), Università globale, op. cit., pp. 29-39.

[19] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1939-1941), trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1968-1970, vol. I, p. 403.

[20] Ivi, p. 401.

[21] Cfr. Steve Wright, Storming Heaven: Class Composition and Struggle in Italian Autonomist Marxism, Pluto Press, London 2002.

[22] Jacques Rancière, Il disaccordo (1995), trad. it. Meltemi, Roma 2007.

[23] Cfr. Andrea Fumagalli – Sandro Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, ombrecorte, Verona 2009.