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03 2020

It’s the capitalism, stupid! La fine della pandemia ...

Maurizio Lazzarato

« L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale, deve terminare per davvero, anche solo per una questione di salute pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana, in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia »
Rob Wallace[1]

Il capitalismo non è mai uscito dalla crisi del 2007/2008. Il virus si innesta sull’illusione di capitalisti, banchieri, politici di poter far tornare tutto come prima, dichiarando uno sciopero generale, sociale e planetario che i movimenti di contestazione sono stati incapaci di produrre.

Il blocco totale del suo funzionamento mostra che in mancanza di movimenti rivoluzionari, il capitalismo può implodere e la sua putrefazione cominciare a infettare tutti (ma secondo rigorose differenze di classe). Il che non significa la fine del capitalismo, ma solo la sua lunga e estenuante agonia che potrà essere dolorosa e feroce. In ogni modo era chiaro che questo capitalismo trionfante non poteva continuare, ma già Marx, nel Manifesto, ci aveva avvisati.

Non vi contemplava solo la possibilità di una vittoria di una classe su un’altra, ma anche la loro vicendevole implosione e una lunga decadenza.

La crisi del capitalismo comincia ben prima del 2008, con la fine della convertibilità del dollaro in oro e conosce una intensificazione decisiva a partire dalla fine degli anni Settanta.
Crisi che è diventata il suo modo di riprodursi e di governare, ma che inevitabilmente sfocia in «guerre», catastrofi, crisi di ogni genere e caso mai, se ci sono delle forze soggettive organizzate, eventualmente, in rotture rivoluzionarie.

Samir Amin, marxista che guarda il capitalismo dal Sud del mondo, la chiama «lunga crisi» (1978-1991) che si produce esattamente un secolo dopo un’altra «lunga crisi» (1873-1890) .

Seguendo le tracce lasciate da questo vecchio comunista, potremo cogliere similitudini e differenze tra queste due crisi e le alternative politiche radicali che la circolazione del virus, che sta rendendo vana la circolazione della moneta, apre.


La prima lunga crisi

Il capitale ha risposto alla prima lunga crisi, che non è soltanto economica perché arriva dopo un secolo di lotte socialiste, culminate nella Comune de Parigi «capitale de XIX secolo» (1871), con una triplice strategia: concentrazione/centralizzazione della produzione e del potere (monopoli), allargamento della mondializzazione e una finanziarizzazione che impone la sua egemonia sulla produzione industriale.

Il capitale diviene monopolistico facendo del mercato una sua appendice. Mentre gli economisti borghesi celebrano l’«equilibrio generale» che il gioco della domanda e dell’offerta determinerebbe, i monopoli avanzano grazie a spaventosi disequilibri, guerre di conquista, guerre tra imperialismi, devastazione di umani e di non umani, sfruttamento, rapina. La mondializzazione significa una colonizzazione che sottomette ormai il pianeta intero, generalizzando la schiavitù e il lavoro servile, per la cui appropriazione si affrontano gli imperialismi nazionali armati fino ai denti.

La finanziarizzazione produce un’enorme rendita di cui approfittano soprattutto i due più grandi imperi coloniali dell’epoca, l’Inghilterra e la Francia. Questo capitalismo, che segna una profonda rottura con quello della rivoluzione industriale, sarà l’oggetto delle analisi di Hilferding, Rosa Luxembourg, Hobson. Lenin è sicuramente il politico che ha colto meglio e in tempo reale il cambiamento della natura del capitalismo e con timing ancora insuperato ha elaborato, con i bolscevichi, una strategia adeguata all’approfondimento della lotta di classe che centralizzazione, mondializzazione, finanziarizzazione implicano.

La socializzazione del capitale, su una scala e a una velocità fino quel momento sconosciute, farà rifiorire i profitti e le rendite, provocando una polarizzazione dei redditi e dei patrimoni, un super sfruttamento dei popoli colonizzati e una esacerbazione della concorrenza tra imperialismi nazionali . Questo breve e euforico periodo, compreso tra il 1890 e il 1914, la «Belle époque», apre al suo contrario: la prima guerra mondiale, la rivoluzione sovietica, guerre civile europee, fascismo, nazismo, Seconda guerra mondiale, l’avvio dei processi rivoluzionari e anticoloniali in Asia (Cina, Indocina), Hiroshima e Nagasaki.

La «belle époque» inaugura l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Queste ultime si succederanno lungo tutto il Ventesimo secolo, ma solo nel sud nel mondo, nei paesi in grande «ritardo» di sviluppo tecnologico, senza classi operaie, ma con molti contadini. Mai la storia dell’umanità aveva conosciuto una tale frequenza di rotture politiche, tutte, come disse Gramsci a proposito della sovietica, «contro il Capitale» (di Marx).


La seconda lunga crisi

Comincia già all’inizio degli anni Settanta, quando la potenza imperialista dominante, liberando il dollaro dagli impacci dell’economia reale, riconosce la necessità di cambiare strategia rompendo il compromesso fordista.

Durante la seconda lunga crisi (1978-1991) i tassi di crescita dei profitti e degli investimenti si dimezzano rispetto al dopoguerra e non torneranno mai più a quei livelli. Anche in questo caso la crisi non è solo economica, ma interviene dopo un potente ciclo di lotte in Occidente e una serie di rivoluzioni socialiste e di liberazioni nazionali nelle periferie. Il capitale risponde alla caduta del profitto e alla prima possibilità della “rivoluzione mondiale”, riprendendo la strategia di un secolo prima, ma con una più forte concentrazione del comando sulla produzione, una mondializzazione ancora più spinta e una finanziarizzazione capace di garantire un’enorme rendita ai monopoli e a gli oligopoli. La ripresa di questa triplice strategia costituisce un salto di qualità rispetto a quella di un secolo fa. Lenin credeva che i monopoli della sua epoca costituissero la «stadio ultimo» del capitale. Al contrario, si sviluppa, tra il 1978 e il 1991, una nuova e più agguerrita tipologia di ciò che Samir chiama «oligopoli generalizzati» perché controllano oramai l’insieme del sistema produttivo, dei mercati finanziari e della catena del valore. La celebrazione del mercato nel momento stesso in cui si affermano i monopoli caratterizzerà anche la ripresa dell’iniziativa capitalista contemporanea (Foucault parteciperà a questi fasti, infettando generazioni di sinistrosi accademici).

Dopo la seconda «belle epoque» segnata dallo slogan di Clinton «It’s the economy, stupid», la fine della storia, il trionfo del capitalismo e della democrazia sul totalitarismo comunista, e altre amenità del genere, come un secolo fa (e in maniera differente) si apre l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Guerre certe, rivoluzioni solo (lontanamente) possibili.

Il trittico, concentrazione, mondializzazione, finanziarizzazione è all’origine di tutte le guerre, le catastrofi, economiche, finanziarie, sanitarie, ecologiche che abbiamo conosciuto e che conosceremo. Ma procediamo con ordine. Come funziona la fabbrica del disastro annunciato?
L’agricoltura industriale, una delle cause maggiori dell’esplosione del virus, fornisce un modello del funzionamento della nuova centralizzazione del capitale da parte degli «oligopoli generalizzati»[2]. Attraverso le semenze, i prodotti chimici e il credito gli oligopoli controllano la produzione a monte, mentre a valle lo smercio delle merci prodotte e la fissazione dei prezzi non è determinata dal mercato ma dalla grande distribuzione che li fissa in maniera arbitraria affamando i piccoli agricoltori indipendenti.

Il controllo capitalistico sulla riproduzione della «natura», la deforestazione, l’agricoltura industriale e intensiva altera profondamente il rapporto tra umani e non umani da cui emergono, da anni, nuovi tipi di virus. Lo sconvolgimento degli ecosistemi da parte di industrie che ci dovrebbero nutrire, è sicuramente a fondamento delle ciclicità ormai assodata dei nuovi virus.

Il monopolio dell’agricoltura è contemporaneamente strategico per il capitale e mortale per l’umanità e il pianeta. Lascio la parola à Rob Wallace, autore di «Big Farms Make Big Flu», il quale sostiene che l’aumento dell’incidenza dei virus è strettamente legato al modello industriale dell’agricoltura (e in particolare la produzione del bestiame) e ai profitti delle multinazionali.

«Il pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per porzione di terra utilizzate (…) La quasi totalità del progetto neoliberale è basata sul supportare i tentativi da parte di aziende provenienti dai paesi più industrializzati di espropriare terreni e risorse dei paesi più deboli. Come risultato, molti di questi nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo liberati, minacciando il mondo intero (…) Allevare monoculture genetiche di animali domestici rimuove ogni tipo di barriera immunologica in grado di rallentare la trasmissione. Grandi densità di popolazione facilitano un più alto tasso di trasmissione. Condizioni di tale sovrappopolamento debilitano la risposta immunitaria [collettiva]. Alti volumi di produzione, aspetto ricorrente di ogni produzione industriale, forniscono una continua e rinnovata scorta di suscettibili, benzina per l’evoluzione della virulenza. In altri termini l’agroindustria è talmente concentrata sui profitti che l’essere colpiti da un virus che potrebbe uccidere un miliardo di persone è considerato come un rischio che val la pena correre».


La finanziarizzazione

La finanziarizzazione funziona come una «pompe à fric» (pompa da soldi) operando un prelevamento (rendita) sulle attività produttive e su ogni forma di reddito e di ricchezza in quantità inimmaginabili anche per la finanziarizzazione a cavallo del XIX e XX secolo. Lo Stato gioca un ruolo centrale in questo processo, trasformando i flussi di salario e reddito in flussi di rendita. Le spese del Welfare (soprattutto le spese per la sanità), i salari, le pensioni sono oramai indicizzati sull’equilibrio finanziario, sul livello cioè della rendita desiderato dagli oligopoli. Per garantirlo, i salari, le pensioni, il Welfare sono costretti ad adeguarsi, sempre al ribasso, alle esigenze dei «mercati» (il mercato non è mai stato né sregolato né capace di autoregolazione, nel dopoguerra è stato regolato dallo Stato, negli ultimi 50 anni dai monopoli). I miliardi risparmiati sulle spese sociali sono messi a disposizione delle imprese che non sviluppano né impiego né crescita né produttività, ma rendita.

Il prelevamento si esercita in maniera privilegiata sul debito pubblico e privato che costituiscono fonti di una ghiotta appropriazione, ma anche focolai di crisi quando si accumulano in maniera delirante come dopo il 2008 favoriti dalle politiche delle banche centrali (la bolla dei debiti delle imprese che hanno usato il quantitative easing per indebitarsi a costo zero per speculare in borsa, sta esplodendo!) Le assicurazioni e i fondi pensione sono degli avvoltoi che spingono continuamente alla privatizzazione tutto il Welfare per gli stessi motivi.


La crisi sanitaria

Questo meccanismo di cattura della rendita ha messo in ginocchio il sistema sanitario e indebolito le capacità di fronteggiare le urgenze sanitarie.

In questione non sono soltanto i tagli alle spese sanitarie cifrati in miliardi di dollari (37 negli ultimi dieci anni in Italia), il non reclutamento di medici e personale sanitario, la chiusura continua di ospedali e la concentrazione delle attività restanti per aumentare la produttività, ma soprattutto il criminale «zero bed, zero stock» del New Public Management. L’idea è di organizzare l’ospedale secondo la logica dei flussi just in time dell’industria: nessun letto deve restare inoccupato perché costituisce una perdita economica. Applicare questo management alle merci (senza parlare dei lavoratori!) era già problematico, ma estenderlo ai malati è da pazzi. Lo zero stock riguarda anche il materiale medico (le industrie sono nella stessa situazione per cui non hanno dei respiratori disponibili in stock, ma devono produrli), i medicinali, le maschere ecc. tutto deve essere «just in time».

Il piano anti pandemia (dispositivo biopolitico per eccellenza) costruito dallo Stato francese dopo la circolazione dei virus H5N1 nel 1997 e nel 2005, Sras nel 2003, H1N1 nel 2009, che prevedeva riserve di maschere, respiratori, medicinali, protocolli di intervento, preparazione del sistema sanitario ecc., gestito da una istituzione specifica (Eprus), è stato, a partire dal 2012, smantellato dallo logica contabile che si è affermata nella Pubblica amministrazione ossessionata da un compito tipicamente capitalista: ottimizzare sempre e comunque il denaro (pubblico) per cui ogni stock è una immobilizzazione inutile, adottando un altro riflesso tipicamente capitalistico: agire sul breve periodo. Per cui lo Stato francese perfettamente allineato con l’impresa, mancando a ogni principio di «salvaguardia delle popolazioni», si trova completamente impreparato di fronte a l’«imprevedibile» emergenza sanitaria attuale.
Basta un qualsiasi intoppo e il sistema sanitario salta producendo costi in vite umane, ma anche costi economici molto più elevati dei miliardi che sono riusciti a accaparrarsi sulla pelle della gente (con buona pace di Weber, il capitalismo non è un processo di razionalizzazione, ma esattamente il suo contrario).

Ma è il monopolio sui farmaci che è forse l’ingiustizia più insopportabile.

Con la finanziarizzazione molti oligopoli farmaceutici hanno chiuso le loro unità di ricerca e si limitano a comprare i brevetti da start-up per poter possedere il monopolio dell’innovazione. Grazie al controllo monopolistico propongono in seguito i medicinali a prezzi esorbitanti, riducendo l’accesso ai malati. Il trattamento della epatite C ha fatto recuperare in pochissimo tempo 35 miliardi all’impresa che aveva comprato il brevetto (costato 11), facendo degli enormi profitti sulla salute dei malati (senza neanche più la solita giustificazione dei costi della ricerca, trattasi di pura e semplice speculazione finanziaria). La Gilead, proprietaria del brevetto è anche quella che possiede il farmaco più promettente contro il Covid-19. Se non si espropriano questi sciacalli, se non si distruggono gli oligopoli delle Big Pharms, ogni politica di salute pubblica è impossibile.

I settori della «salute» non sono governati dalla logica biopolitica del «prendersi cura della popolazione» né dall’altrettanto generica «necropolitica». Sono comandati da dei precisi, minuziosi, pervasivi, razionali nella loro follia, violenti nel loro effettuarsi, dispositivi di produzione del profitto e della rendita[3].

La governamentalità non ha nessun principio interno che ne determina gli orientamenti, perché ciò che deve governare è il trittico concentrazione, mondializzazione, finanziarizzazione e le sue conseguenze non sulle popolazioni, ma sulle classi. I capitalisti ragionano in termini di classi e non di popolazione, e anche lo Stato che gestiva i cosiddetti dispositivi biopolitici, decide ormai apertamente su queste basi perché è letteralmente in mano ai «fondés du pouvoir» del capitale da almeno cinquant’anni. È la lotta di classe del capitale, il solo, per il momento, che la conduce coerentemente e senza esitazione, che orienta tutte le scelte come dimostrano spudoratamente le misure anti-virus.

Tutte le decisioni e i finanziamenti presi da Macron sono per le imprese in perfetta continuità con le politiche dello Stato francese dal 1983. Dopo aver represso a manganellate le lotte del personale ospedaliero (medici compresi) che denunciavano il degrado del sistema sanitario durante tutto l’anno appena concluso, ha concesso, una volta scoppiata la pandemia, 2 miserabili miliardi per gli ospedali. Su «pressione» dei padroni ha invece sospeso i diritti dei lavoratori che ne regolano l’orario (adesso si può lavorare fino a 60 ore la settimana) e le ferie (i padroni possono decidere di trasformare i giorni persi a causa del virus in giorni di ferie), senza indicare quando questa legislazione speciale del lavoro finirà.

Il problema non è la popolazione, ma come salvare l’économia, la vita del capitale.

Non c’è nessuna rivincita del Welfare all’orizzonte! Macron ha ordinato uno studio per la riorganizzazione del settore della salute alla «Cassa di depositi e prestiti» che incita a utilizzare ancor più il settore privato.

Il lockdown in Italia è stato a lungo una farsa (come lo è in Francia attualmente), perché la Confindustria si è opposta alla chiusura delle unità di produzione. Milioni di lavoratori si spostavano quotidianamente, si concentravano in trasporti pubblici, fabbriche e uffici, mentre si tacciavano di irresponsabili i runner e si vietavano gli assembramenti di più di due persone.
Sono stati gli scioperi selvaggi che hanno spinto per una chiusura «totale» alla quali gli imprenditori si stanno ancora opponendo.

La dichiarazione dello stato di emergenza di Trump ha trasformato la pandemia in una colossale occasione di trasferimento di fondi pubblici a compagnie private. Secondo quanto emerso lo stato di emergenza sanitaria permetterà a:

– Walmart di condurre drive-thru testing nei 4769 parcheggi dei suoi negozi

– Target di condurre test nei parcheggi dei suoi negozi

– Google di mettere a lavoro 1700 ingegneri per creare un sito web per determinare se le persone hanno bisogno di test – anzitutto nella Bay Area e non su tutto il territorio nazionale

– Becton Dickinson di vendere dispositivi medici

– Quest Diagnostics di elaborare i test di laboratorio

– il colosso farmaceutico svizzero Roche autorizzato da U.S. Food and Drug Administration a usare i propri sistemi diagnostici

– Signify Health, Lab Corp, CVS, LHC Group, di fornire test e servizi sanitari a domicilio

–Thermo Fisher, una società privata di collaborare con il governo per fornire i test

Le azioni di queste compagnie stanno già andando alle stelle.

Dopo che Trump ha smantellato con un timing perfetto il consiglio di sicurezza nazionale per le pandemie nel 2018 (spese inutili!), la «risposta innovativa» del governo, come ha detto Deborah Birx, supervisore della risposta al coronavirus della Casa Bianca, è ora «centrata completamente sullo scatenamento del potere del settore privato».

L’assurdità assassina di questo sistema si rivela non soltanto quando la rendita si accumula come «allocazione ottimale delle risorse» nelle mani di pochi, ma anche quando, non trovando opportunità di investimento o resta nel circuito finanziario o al sicuro nei paradisi fiscali, mentre i medici e gli infermieri mancano di maschere, mancano i tamponi, i letti, il materiale, il personale.

Hanno pompato tutto il denaro che potevano e questo denaro, nelle condizioni del capitalismo attuale, è solo sterile e impotente, carta straccia perché non riesce a trasformarsi in denaro – capitale. Anche i cosiddetti «mercati» se ne stanno rendendo conto e ne domandano sempre di più pur non sapendo cosa farne. I finanziamenti e gli interventi delle banche centrali rischiano di andare a vuoto, perché non si tratta più di salvare le banche, ma le imprese. I miliardi immessi con il quantitative easing sono finiti a finanziare la speculazione delle banche, ma anche delle imprese e degli oligopoli e a gonfiare il debito privato che ha superato da anni quello pubblico. La finanza è più disastrata che dopo il 2008. Ma questa volta, à differenza del 2008 è l’economia reale che si ferma (sia dal lato della domanda che dell’offerta) e non le transazioni tra banche. Rischiamo di assistere a un remake della crisi del ’29 che potrebbe trascinarsi dietro un remake di quello che è successo subito dopo.


Un nuovo piano Marshall?

Il denaro funziona, è potente se c’è una macchina politica che lo utilizza e questa macchina è costituita da rapporti di potere tra classi. Sono questi che si devono cambiare perché sono questi che sono all’origine del disastro. Continuare a iniettare denaro volendo mantenerli inalterati non fa che riprodurre le cause della crisi, aggravandole con la costituzione di bolle speculative sempre più minacciose. È per questo motivo che la macchina politica capitalista sta girando a vuoto provocando danni che rischiano di essere irreparabili.

Le politiche keynesiane non sono state solo una somma di denaro da inserire nell’economia in funzione anti ciclica, ma implicavano, per poter funzionare, un cambiamento politico radicale rispetto al capitalismo a egemonia finanziaria del secolo scorso: il controllo ferreo della finanza (e dei movimenti dei capitali che, adesso, si stanno ritirando velocemente, a causa del virus, dai paesi in via di sviluppo) perché lasciata libera di espandersi e di allargare il potere degli azionisti e degli investitori finanziari che si dividono la rendita, non potrà che ripetere i disastri delle guerre, delle guerre civili e delle crisi economiche del primo Novecento. Il compromesso fordista prevedeva un ruolo centrale delle istituzioni del «lavoro» integrate alla logica della produttività, un controllo dello Stato sulle politiche fiscali che tassavano il capitale e i ricchi per ridurre i differenziali di reddito e patrimonio imposti dalla rendita finanziaria ecc. Niente che assomigli anche lontanamente a queste politiche sta dietro ai miliardi di miliardi che le banche centrali immettono nell’economia e che servono solo a non fare crollare il sistema e a ritardare la resa dei conti. Non cambia assolutamente niente se al posto del quantitative easing ci sono miliardi investiti nella green economy, e neanche se viene stabilito un surrogato di reddito universale (che intanto, se lo danno, lo prendiamo per finanziare le lotte contro questa macchina di morte).

Keynes che conosceva bene queste canaglie diceva che per «garantire il profitto sono disposti a spegnere il sole e le stelle». Questa logica non è minimamente intaccata dagli interventi delle banche centrali, ma confermata. Non possiamo che attenderci il peggio!

Basta spingere un po’ più in là questa logica (ma di molto poco, vi assicuro) e conosceremo nuove forme di genocidio che i diversi «intellettuali» del potere non sapranno poi come spiegarsi («il male oscuro», il «sonno della ragione», la «banalità del male» ecc.).


Le guerre contro i «viventi»

Il confinamento che stiamo vivendo assomiglia molto a una prova generale della prossima, ventura crisi «ecologica» (o atomica, come preferite). Chiusi in casa per difenderci da un «nemico invisibile» sotto la cappa di piombo organizzata da quelli che sono responsabili della situazione creatasi.

Il capitalismo contemporaneo generalizza la guerra contro i viventi, ma lo fa fin dall’inizio della sua storia perché sono l’oggetto del suo sfruttamento e per sfruttarli deve sottometterli.

La vita degli umani, come tutti possono constatare, deve sottostare alla logica contabile che organizza la salute pubblica e decide chi vive e chi muore. La vita dei non umani si trova nelle stesse condizioni perché l’accumulazione del capitale è infinita e se il vivente, con la sua finitudine, costituisce un limite alla sua espansione, il capitale lo affronta come tutti gli altri limiti che incontra, superandoli. Questo superamento implica necessariamente l’estinzione di ogni specie.

Sia la specie umana che le specie non umane sono accattivanti solo come occasioni di investimento e unicamente come fonte di profitto.

Gli oligopoli se ne sbattono altamente (bisogna dirlo come lo sentono!) di tutte le Cop del mondo, dell’ecologia, di Gaia, del clima, del pianeta. Il mondo non esiste che nel breve periodo, il tempo di far fruttificare i capitali investiti. Ogni altra concezione del tempo è loro completamente estranea.

Ciò che li preoccupa è la «rarità» relativa di risorse naturali ancora largamente disponibili cinquanta anni fa. Sono assillati dal garantirsi l’accesso esclusivo di queste risorse di cui hanno bisogno per assicurare la continuità della loro produzione e del loro consumo che costituiscono uno spreco assoluto. Sono perfettamente al corrente che non ci sono risorse per tutti e che lo squilibrio demografico andrà accentuandosi (già oggi 15% della popolazione mondiale vive al nord e 85% nei sud del mondo).

Lontani da ogni preoccupazione ecologica, pronti a tagliare fino all’ultimo albero in Amazzonia, coscienti che solo una militarizzazione del pianeta potrà garantire loro l’accesso esclusivo alle risorse naturali. Non si stanno preparando solo altre enormi catastrofi naturali, ma anche guerre «ecologiche» (per l’acqua, la terra ecc).

Disposti come sempre a regolare i loro conflitti con il sud del mondo attraverso le armi, le utilizzano e le utilizzeranno senza alcun stato d’animo per prendersi tutto di cui hanno bisogno, proprio come con le colonie. L’Africa con le sue risorse è fondamentale, gli africani che ci abitano molto meno.


Ma continuiamo con l’analisi del disastro prossimo venturo già in corso sempre sulle tracce de Samir Amin

La mondializzazione, apparentemente, non oppone più paesi industrializzati a paesi «sottosviluppati». Opera invece una delocalizzazione della produzione industriale in questi ultimi che funzionano come dei subappalti dei monopoli senza alcuna autonomia possibile perché la loro esistenza dipende dai movimenti dei capitali stranieri (tranne in Cina). Ma la polarizzazione centro/periferie che dà all’espansione capitalista il suo carattere imperialista, prosegue e si approfondisce. Si riproduce all’interno paesi emergenti: una parte della popolazione lavora nelle imprese e nell’economia delocalizzata , mentre la parte più importante cade, non nella povertà, ma nella miseria.

La finanziarizzazione impone a questi paesi una «accumulazione originaria» accelerata. Devono industrializzarsi, «modernizzarsi, ripercorrendo in qualche anno quello che i paesi del nord hanno realizzato in secoli. L’accumulazione originaria sconvolge in maniera assurdamente accelerata la vita di umani e non umani e altera i loro rapporto creando le condizioni per l’apparizione di mostri di ogni tipo.

La novità della mondializzazione contemporanea è che questa distribuzione centro/periferia, si installa anche all’interno dei paesi del Nord: delle isole di lavoro stabile, salariato, riconosciuto, garantito da diritti e codici (in via, comunque, di restringimento continuo) circondate da oceani di lavoro non pagato o a buon mercato, senza diritti e senza protezioni sociali (precari, donne, migranti). La macchina «centro/periferie» non è scomparsa. Non solo ha assunto la forma neocoloniale, ma si è inserita anche nelle economie occidentali.

Analizzare l’organizzazione del lavoro partendo dal general intellect, dal lavoro cognitivo, neuronale e via cantando, è assumere un punto di vista eurocentrico, uno dei peggiori difetti del marxismo occidentale che continua, imperterrito, a riprodursi.

I paesi delle periferie non sono controllati e comandati solo dalla finanza, ma anche dal monopolio della tecnica e della scienza strettamente in mano agli oligopoli (il diritto ha messo a loro disposizione anche l’arma della «proprietà intellettuale»). Qualunque sia la potenza della tecnica e della scienza , si tratta di dispositivi che funzionano all’interno di una macchina politica. Il capitalismo che stiamo subendo è, per dirlo con una formula, un XIX secolo high-tech, con un sottofondo di darwinismo sociale, altro che «capitalismo delle piattaforme», numerico, della conoscenza ecc. E’ la macchina del capitale che impone centralizzazione, finanziarizzazione, mondializzazione e sicuramente né la scienza e né la tecnica.


Guerre certe! E le rivoluzioni?

La seconda lunga crisi, come la prima, apre a una nuova epoca di guerre e di rivoluzioni.

La guerra ha cambiato di natura. Non si scatena più tra imperialismi nazionali come nella prima parte del XX secolo. Ciò che emerge dalla lunga crisi non è l’Impero di Negri e Hardt, ipotesi largamente smentita dai fatti, ma una nuova forma di imperialismo che Samir Amin chiama «imperialismo collettivo». Costituito dalla triade Usa, Europa, Giappone e guidato dai primi, il nuovo imperialismo gestisce dei conflitti interni per la spartizione della rendita e conduce delle guerre sociali senza tregua contro le classi subalterne del nord per spogliarle di tutto quello che è stato costretto a cedere loro durante il XX secolo, mentre organizza invece guerre vere e proprie contro i sud del mondo per il controllo esclusivo delle risorse naturali, le materie prime, il lavoro gratuito o a buon mercato, o semplicemente per imporre il suo controllo e un apartheid generalizzato.

Gli Stati che non operano gli aggiustamenti strutturali necessari per farsi saccheggiare saranno strozzati dai mercati e dal debito o dichiarati «canaglia» da dei gentlemen come i presidenti americani che hanno un numero spaventoso di morti sulla coscienza.

I neoliberali americani e inglesi, all’inizio dell’epidemia hanno cercato di spingere ancora oltre la guerra sociale contro le classi subalterne, trasformandola, grazie al virus, in eliminazione maltusiana dei più deboli. La riposta liberista alla pandemia, prima ancora che da Boris Johnson, era stata lucidamente articolata da Rick Santelli, analista della emittente economica CNBC: «inoculare tutta la popolazione col patogeno. Si accelererebbe solo un decorso inevitabile, ma i mercati si stabilizzerebbero». Questo è quello che pensano veramente. Con condizioni più favorevoli non esiterebbero un istante a mettere in opera «l’immunità di gregge».

Questi gentlement, spinti dagli interessi della finanza, sono ossessionati dalla Cina. Ma non per i motivi che loro stessi danno in pasto all’opinione pubblica. Quello che non li fa dormire non è la concorrenza industriale o commerciale, ma il fatto che la Cina, unica grande potenza economica, ha integrato l’organizzazione mondiale della produzione e degli scambi, ma rifiuta di essere inserita nei circuiti dei pescecani della finanza. Banche, cambi, borse, movimento dei capitali sono sotto lo stretto controllo del Partito comunista cinese. L’arma più temibile del capitale, che succhia valore e ricchezza in ogni angolo della società e del mondo, non funziona con la Cina. I grandi oligopoli non possono neanche controllare la produzione, il sistema politico, e sono nell’impossibilità di distruggere le economie, come hanno fatto con altri paesi asiatici a cavallo del passaggio del secolo, quando non rispettavano gli ordini dettati delle istituzioni internazionali del capitale. In questo caso potrebbero essere tentati di aprire un conflitto. Ma vista l’approssimazione e l’incompetenza dei governi e degli Stati imperialisti nella gestione della crisi sanitaria, ci dovrebbero pensare due volte. Visti dall’Oriente, restano comunque delle «tigri di carta».

Per essere chiari: la Cina non è un paese socialista, ma non è neanche un paese capitalista nel senso classico, né tantomeno neolibearale come molti sciocchi dicono.


Lo stato d’eccezione

Quello che Agamben ed Esposito, sulla scia di Foucault, sembrano non voler integrare è che la biopolitica, se mai è esistita, è ora radicalmente subordinata al Capitale e continuare a usare il concetto non sembra avere molto senso. Difficile dire qualsiasi cosa sull’attualità senza un’analisi del capitalismo che si è completamente inghiottito lo Stato. L’alleanza Capitale e Stato che funziona dalla conquista delle Americhe, ha subìto nel XX secolo un cambiamento radicale, di cui Carl Schmitt stesso rende perfettamente e malinconicamente conto: la fine delle Stato come l’Europa l’aveva conosciuto dal XVII secolo perché la sua autonomia si è andata progressivamente riducendo e le sue strutture, tra le quali anche le cosiddette biopolitiche, sono diventate delle articolazioni della macchina del capitale.

I pensatori dell’Italian Thought hanno preso lo stesso abbaglio di Foucault che nel 1979 (ma quaranta anni dopo, è imperdonabile!), anno strategico per l’iniziativa del capitale (la Fed americana inaugura la politica del debito in grande stile), afferma che la produzione di «ricchezza e povertà» è un problema del XIX secolo. La vera questione sarebbe il «troppo potere». Di chi ? Non si capisce. Dello Stato? Del biopotere? Dei dispositivi di governamentalità? Proprio in quell’anno, si delinea invece una strategia tutta imperniata invece sulla produzione di differenziali dementi di ricchezza e povertà, di ineguaglianze mastodontiche di patrimonio e di reddito e il «troppo potere» è del capitale che, se vogliamo usare le loro vecchie e logore categorie, è il «sovrano» che decide della vita e della morte di miliardi di persone, delle guerre, delle emergenze sanitarie.

Anche lo stato d’eccezione è stato ammaestrato della macchina del profitto, tant’è vero che convive con lo stato di diritto e sono, entrambi, al suo servizio. Catturato dagli interessi di una volgare produzione di merci, si è imborghesito, non ha più il significato che gli attribuiva Schmitt! Persa la sua aulica e truce capacità di «decidere» di una fine tragica o un nuovo inizio, è ridotto a semplice strumento di ordine pubblico!


Conclusione sibillina

I comunisti sono arrivati all’appuntamento con la fine della prima «Belle Epoque», armati di un bagaglio concettuale d’avanguardia, di un livello di organizzazione che ha resistito anche al tradimento della socialdemocrazia che ha votato i crediti di guerra, di un dibattito sul rapporto capitalismo-classe operaia, rivoluzione i cui risultati hanno fatto tremare, per la prima volta, capitalisti e Stato. Dopo il fallimento delle rivoluzioni europee hanno spostato il baricentro dell’azione politica all’est, nei paesi e nei «popoli oppressi», aprendo il ciclo di lotte e rivoluzioni più importanti del XX secolo: la rottura della macchina capitalistica organizzata dal 1942 sulla divisione tra centro e colonie, lavoro astratto e lavoro non pagato, tra produzione manchesteriana e rapina coloniale. Il processo rivoluzionario in Cina e in Vietnam è stato d’impulso per tutta l’Africa , l’America Latina e tutti i «popoli oppressi».

Molto rapidamente, subito dopo la Seconda guerra mondiale questo modello è entrato in crisi. Lo abbiamo aspramente e giustamente criticato ma senza essere in grado di proporre niente che si issasse a quel livello. Molto lucidamente dobbiamo dire che siamo arrivati alla fine della seconda «Belle époque» e dunque all’«epoca delle guerre e delle rivoluzioni» completamente disarmati, senza concetti adeguati allo sviluppo del potere del capitale e con livelli di organizzazione politica inesistenti.

Niente paura, la storia non precede linearmente. Come diceva Lenin: «ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni».

Bisogna però ripartire, perché la fine della pandemia darà inizio a scontri di classe molto duri. Partire da quello che è stato espresso nei cicli di lotta del 2011 e del 2019-20, che continuano a mantenere delle significative differenze tra nord e sud. Non c’è alcuna possibilità di ripresa politica se restiamo chiusi in Europa. Capire il perché dell’eclissi della rivoluzione che ci ha lasciati senza alcune prospettiva strategica e ripensare cosa significa una rottura politica con il capitalismo oggi. Criticare i limiti più che palesi di categorie che non rendono minimamente conto delle lotte di classe a livello mondiale. Non abbandonare questa categoria e organizzare invece il passaggio teorico e pratico dalla lotta di classe, alle lotte di classe al plurale. E su questa affermazione sibillina mi fermo.


https://www.deriveapprodi.com/2020/04/13888/

 

[1] https://transversal.at/transversal/0420/wallace-etal/en

[2] Gli oligopoli sono «finanziarizzati», il che non significa che un gruppo oligopolistico sia costituito semplicemente da fondi finanziari, assicurativi o pensionistici che operano in mercati speculativi. Gli oligopoli sono gruppi che controllano sia grandi istituti finanziari, banche, fondi assicurativi e pensionistici sia grandi gruppi produttivi. Controllano i mercati monetari e finanziari che occupano una posizione dominante su tutti gli altri mercati.

[3] Il confinamento è sicuramente una delle tecniche biopolitiche (gestione della popolazione tramite statistiche, esclusione e individualizzazione del controllo che entra nei più infimi dettagli dell’esistenza ecc.), ma queste tecniche non hanno una logica propria, piuttosto sono, almeno dalla metà del XIX secolo , de quando il movimento operaio è riuscito a organizzarsi, oggetto di lotta tra le classi (recupero da parte dello Stato delle pratiche di “mutuo soccorso” operaie). Il Welfare nel XX secolo è stato un elemento di scontri e negoziazioni tra capitale e lavoro, strumento fondamentale per contrastare le rivoluzioni del secolo scorso e integrare le istituzioni del movimento operaio, e poi delle lotte delle donne ecc. Il Welfare contemporaneo, una volta che i rapporti di forza sono, come oggi, in favore del capitale, è diventato un suo settore di investimento e management come ogni altra industria e ha imposto la logica del profitto alla sanità, alla scuola, alle pensioni ecc. Anche quando lo Stato contemporaneo interviene come in questa crisi lo fa secondo un punto di vista di classe per salvare la macchina del potere di cui non è che una parte. Non viviamo in una sociétà biopolitica (R. Esposito) ma hypercapitalista.