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04 2019

Le ecologie che curano

Francesco Salvini

Traduzione di Alisea Neroni

Praticamente un manifesto

Se non fosse così lungo, questo testo potrebbe essere (vorrebbe essere) un manifesto. Di certo non è un saggio analitico che reinterpreta un luogo, né una storia critica del movimento portato avanti da Franco Basaglia. È più che altro una deriva, un itinerario non programmato e costellato di riflessioni, eventi, oggetti in cui mi sono imbattuto durante la mia esperienza di ricerca all’interno del sistema sanitario triestino. È il risultato di un lungo rapporto con le soggettività che abitano e costruiscono questo sistema ogni giorno, con le memorie di una pratica collettiva di cura, con gli artefatti e i luoghi che costituiscono la possibilità materiale di una pratica di cura reciproca, un legame con quella che Franco Rotelli (2013, Cogliati 2018), uno dei protagonisti della traiettoria triestina e direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste negli anni ‘80 e ‘90, ha chiamato una città che cura.

Durante la ricerca mi sono concentrato principalmente su due questioni. Questo articolo costituisce infatti innanzitutto un tentativo di contribuire alla critica (e alla reinvenzione) dell’analisi istituzionale, presentandola come una ecologia: per dirlo con Donna Haraway (2016), una pratica di organizzazione “dentro alle difficoltà”, anziché diagnosi esterna dei problemi altrui o esercizio autonomo lontano dalle contraddizioni della realtà. Un’ecologia si rapporta al tempo in modo diagrammatico, non lineare, e istituisce una relazione tra le dinamiche sociali e l’immaginario politico come concreta esplorazione in costante tensione con il presente, com’è e come si vorrebbe che fosse.

La singolarità dell’esperienza triestina, cominciata nel tumulto generale degli anni ‘70, si colloca oggi all’interno della cornice dei modelli contemporanei di governance europei (in particolare quelli del Mediterraneo): lo smantellamento dello stato sociale ha influito infatti non solo sulla fornitura dei servizi, ma in generale sulla legittimità che hanno le politiche pubbliche nel prendersi cura della società. E la realtà triestina non sfugge a questo scenario. La rivoluzione di Basaglia è ormai calata nelle condizioni di precarietà e austerità del nostro presente, immersa in un terreno difficile fatto di privatizzazione e controriforma istituzionale, costretta a fare i conti con le conseguenze dell’approccio neoliberista alla cura in quanto progetto di individualizzazione degli affetti e mercificazione delle vite.

Le scelte delle generazioni precedenti costituiscono gli spazi di possibilità che abbiamo di fronte a noi. E oggi questo spazio è quello del collasso dello stato sociale. Viviamo in un mondo danneggiato: il passato insiste sul presente e il contemporaneo si addensa lungo il ciglio precario della modernità, nella crisi del paradigma che annunciava (prematuramente, ancora una volta) la fine della storia. Per sfuggire alla trappola delle alternative infernali (Stengers e Pignarre, 2011) e non dover scegliere tra la distruzione del welfare guidata dal mercato e il paternalismo verticale portato avanti dallo stato, cercherò di istituire uno spazio di narrazione e affabulazione che possa, almeno spero, spingere la singolarità di Trieste, come pratica di concreta immaginazione, al di là dei propri confini.

La seconda questione a cui mi dedico è il ruolo della cura nella costituzione dell’organizzazione sociale in quanto ecologia. Le riflessioni contemporanee sulla cura sono molteplici, e a volte contraddittorie: si tratta infatti di una categoria ampiamente discussa nell’analisi critica della riproduzione sociale, ma che ha anche assunto un ruolo ormai onnipresente nel marketing moralista e nella governance neoliberale, segnando, come lo chiama Maria Puig de la Bellacasa, un “ordine pervasivo di moralità biopolitica individualizzata” (2017). Consapevole di questo secondo significato, cerco comunque di star dentro ai dibattiti critici e di prendervi parte, con un’attenzione particolare agli spazi plurali dei femminismi, che hanno costruito, da almeno cinquant’anni a questa parte, una interpretazione complessa della cura.

Quello della cura è un territorio ambivalente. Da una parte, infatti costituisce una questione cruciale ai fini dell’analisi delle forme contemporanee del capitalismo come macchina micropolitica e biopolitica che organizza la riproduzione sociale: la cura è parte del continuo processo sociale di sfruttamento, espropriazione, e astrazione (Barbagallo, 2016; Federici, 2013; Fraser, 2016), in particolare (ma non solo) al di fuori di quella che Sraffa chiama la produzione di merci a mezzo di merci. Dall’altra parte, la cura è uno spazio di autonomia e organizzazione capace di istituire nuovi terreni di possibilità dentro e contro i processi di annientamento innescati dal capitale (bell hooks, 2009; Precarias a la Deriva, 2004)

Nel bel mezzo di questa tensione, recentemente sono state coinvolte nell’analisi della cura nuove concatenazioni, dinamiche, nuovi agenti, che intrecciano i processi geopolitici e l’articolazione di razza, genere e classe nei cicli di produzione sociale che la cura, ontologicamente, sostiene. Inoltre, l’analisi critica della cura si confronta oggi con dimensioni più che umane e più che sociali: ai margini di altri mondi, la cura si dà nella sensibilità attiva delle cose, ma anche in un presente sempre più urgente, in bilico tra sostenibilità e catastrofe (de la Bellacasa, 2017).

Sull’onda di questi dibattiti e approcci molteplici, cercherò di trovare un altro equilibrio, sul confine lungo il quale l’analisi istituzionale si incontra, da una parte, con le complessità e le singolarità della cura, cioè con i processi molecolari che ne configurano il funzionamento materiale, e dall’altra con la logica di organizzazione che riproduce la razionalità istituzionale, cioè con le linee molari che ordinano l’istituzione. Per dirla in termini più concreti, cerco di ‘stare con la cura’ laddove questa si interseca con una critica istituente della cittadinanza.

Storicamente, la cittadinanza industriale e il welfare sociale hanno costituito l’orizzonte utopico delle lotte del ventesimo secolo (dei lavoratori maschi e bianchi): l’obiettivo era un’immagine omogenea della società civile organizzata attraverso lo stato-nazione. Il movimento basagliano ha dato vita a un’altra concezione del cittadino, partendo da quella che era allora una negazione istituzionale della cittadinanza del matto, e ripensando la questione della cittadinanza attraverso le lenti della singolarità e della fragilità.

Allora, forse, oggi la questione della cittadinanza può diventare qualcos’altro: come possiamo produrre una pratica quotidiana di democrazia all’interno della situazione attuale? Come possono i matti (noi, matti), spesso fuori da (ma, allo stesso tempo, sempre dentro) la nostra società, affermare i propri diritti sociali, politici e civili, senza rimanere intrappolati nel doppio vincolo di esclusione e normalità? In che modo lo stato sociale può sostenere la libertà costitutivamente difficile di ogni singolarità nella vita urbana, senza necessariamente costituire e normalizzare il cittadino come un’identità omogenea, autorizzata e solo per questo riconosciuta come portatrice di diritti?

La cittadinanza, in altre parole (in quelle delle Precarias a la Deriva cui-dadania, 2004, un gioco di parole che potremmo cercare di tradurre come cura-dinanza[1]) ruota intorno al ruolo della cura nel dar forma alla vita urbana e sociale. A Trieste, questa questione era inizialmente articolata in due modi: come problema istituzionale, cioè come smantellare la tendenza istituzionale ad oggettivare la socialità; e in quanto sfida istituzionale, cioè come inventare pratiche trasformatrici all’interno delle istituzioni, capaci di sostenere la libertà di chi vive un momento di fragilità.

La deistituzionalizzazione era una pratica intesa a rivendicare l’alter-soggettivazione contro la modalità oggettivante dell’istituzione totale: un’oggettivazione che non colpiva solo i corpi confinati degli internati, ma anche quelli dei lavoratori come addetti all’oppressione. L’oggettivazione della psichiatria d’altronde non è altro che il punto limite della tendenza che hanno tutte le istituzioni a riprodurre se stesse e il loro potere sulla società, quando invece dovrebbero sostenere la riproduzione sociale (e l’invenzione permanente, Rotelli, 1988) dei mezzi collettivi, organizzati per rispondere ai desideri sociali (come Gilles Deleuze, 2004, definisce, più o meno, un’istituzione).

A Trieste, questa pratica di cittadinanza come emancipazione si è articolata nella dimensione molare, attacco all’ordine dell’istituzione: attraverso i movimenti sociali, la critica alla medicina, le campagne mediatiche, i processi legali e i conflitti urbani, come pure attraverso la regolamentazione legale e la produzione istituzionale, e un lungo eccetera di strategie volte a difendere questa invenzione. Allo stesso tempo, questa pratica, in quanto progetto di cura che coinvolge utenti e cittadini all’interno delle politiche molecolari della cura, è stata, e continua ad essere, un esperimento che ha come oggetto una comprensione radicale della cittadinanza.

Nel tentativo di contribuire a questo esperimento, mi addentro perciò in questa ecologia della cura (o ecologie che curano, poiché la cura è un processo, ed è sempre plurale). Ecologia della cura significa dunque fare cura (e fare senso) attraverso i processi sempre irrisolti e imprevedibili della riproduzione sociale; fare cura nella composizione di differenti processi di trasformazione soggettiva; fare cura “con ciò che ci circonda” (Stengers, 2013, ma anche Harney e Moten, 2013, o Deleuze e Guattari, 1988), cioè riconoscendo l’interdipendenza tra la cura e l’organizzazione sociale, mentale e ambientale della vita quotidiana.

Le ecologie che curano si muove dentro le tensioni e composizioni vive della cura, insieme, attorno, e spesso fuori dalle pratiche istituzionali. Usando Trieste come terreno per questa immaginazione concreta, dedicherò le prossime pagine a ipotizzare l’ecologia della cura come assemblaggio di concetti, materialità, relazioni ed esperienze.


Trieste, città libera?

Questa storia è ambientata in un luogo del tutto particolare, Trieste. Nel corso del ventesimo secolo, Trieste è stata molto spesso la frontiera con l’ignoto: l’estremo della crisi dell’Impero Austroungarico dopo la Prima Guerra Mondiale, la frontiera dell’espansione del regime fascista italiano; l’ultima lembo di ‘democrazia’ occidentale sull’orlo della cortina di ferro.

In effetti un confine, Trieste, lo è stata per secoli: come luogo di scambio globale e di apertura culturale tra religioni, comunità, civiltà. La caduta dell’Impero Austroungarico e l’annessione all’Italia causarono il collasso della città come polo finanziario, nonché la crescita di conflitti identitari tra italiani, slavi e altre etnie nella città. A partire dagli anni ‘50, ondate di ricollocamenti dalla Jugoslavia diedero un contributo fondamentale allo sviluppo delle acciaierie e di altre industrie. Dopo la crisi industriale degli anni ‘80 e la caduta della cortina di ferro, Trieste visse una lunga crisi economica e ambientale resa ancor più difficile dalla realtà demografica di una popolazione che continua ancora oggi a invecchiare.

In questo luogo di inerzia, il movimento basagliano è stato protagonista, a partire dalla fine degli anni ‘60, di una spaccatura plurale e globale. Questa storia inizia nel 1961 nella città di Gorizia, dove Franco Basaglia e la sua equipe trasformarono il manicomio in una comunità terapeutica, allo stesso tempo questionando la relazione di potere radicata nelle loro stesse pratiche di riforma istituzionale. Nel 1968, diventata impossibile la collaborazione con l’amministrazione provinciale, Basaglia rassegnò le proprie dimissioni. Già nel 1964, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istitu­zionalizzazione (Basaglia, 1964) definiva nuovi contorni per una psichiatria critica e radicale, che comprendevano un’autocritica dello stesso paradigma di comunità terapeutica che si stava sperimentando.

Prendendo spunto dai dibattiti della fenomenologia, Basaglia poneva una distinzione fondamentale tra l’esperienza del disagio mentale e momentaneo di una persona, e dunque bisognosa di cura, e la istituzionalizzazione, che egli identificava come il principale dei problemi. Bisognava prima di tutto smantellare e trasformare il ruolo drammatico e violento della psichiatria (e della medicina) nei processi di cura.

Nel manicomio tradizionale, quello della frenologia, la psichiatria era una pratica di violenza la cui legittimità era radicata nella comprensione totalitaria della relazione tra stato e società, come propongono Basaglia e Franca Ongaro (1987). In questo quadro, la cura è impossibile (e diventa una pratica di repressione e controllo). Fu la scoperta e l’utilizzo di nuovi approcci farmacologici dopo la Seconda Guerra Mondiale che permise invece a Basaglia di affermare un rifiuto radicale dei mezzi tradizionali del manicomio, e di proporre nuovi approcci alla cura. In questa nuova cornice farmacologica, istituzionale e politica, la deistituzionalizzazione, la psicoterapia istituzionale, la psichiatria radicale e l’antipsichiatria, l’etnopsichiatria e simili, prima in Inghilterra e in Francia, e successivamente in Italia, Germania, Spagna e Brasile ottennero una nuova centralità.

Originatosi sulla scia delle pratiche critiche istituzionali di John Connolly e altri psichiatri alla fine del diciannovesimo secolo, questo dibattito si è poi sviluppato intorno alle esperienze di Saint Alban e La Borde in Francia, dell’Ospedale Militare di Northfield, della pratica anti-psichiatrica di Kingsley Hall e dell’Associazione Philadelphia nel Regno Unito, così come intorno a quelle del movimento anti-istituzionale italiano, specialmente a Trieste, Trento e Reggio Emilia. In Italia, alcuni delle voci più importanti di questi dibattiti furono quelle di Franco Basaglia, Franca Ongaro, Mariagrazia Giannichedda, e Franco Rotelli. Molto significative sono state e sono tuttora anche le pubblicazioni di Giovanni Jervis, Mario Tommasini, Assunta Signorelli, Giovanna Del Giudice, Giovanna Gallio, Mariagrazia Cogliati, Peppe Dell’Acqua. Allo stesso tempo, pensatori quali Michel Foucault, Mony Elkalm, Robert Castel e artisti come Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Dario Fo e Franca Rame, tra i tanti, allargarono lo spazio per la critica oltre la psichiatria.

C’erano e ci sono molti personaggi coinvolti, ma, tra tutti, a rendere effettivamente possibile questa nuova pratica di cura a Trieste, sono state soprattutto le persone: gli utenti, gli infermieri, i medici e i cittadini. Una nuova generazione che, intendendo il manicomio come uno spazio di sperimentazione e discussione, lo ha attraversato a partire dagli anni ‘70: centinaia di volontari, artiste, attivisti e studentesse che, nel corso degli anni ‘70 e ‘80, hanno plasmato una immaginazione concreta e collettiva della libertà e della emancipazione come terreni per la cura. Insieme queste persone, alleate, parti e controparti dell’amministrazione istituzionale, hanno immaginato e sostenuto un’intrusione istituzionale che ha portato a un nuovo approccio alla salute mentale, e hanno anche guidato un’invasione capace di resistere ai contrattacchi conservatori e alla restaurazione dei modelli tradizionali.

Qualche dato storico per inquadrare le mie riflessioni sulle ecologie che curano di Trieste: nel 1971 Franco Basaglia fu nominato Direttore del Manicomio, e gli fu affidato il mandato politico dal presidente della provincia, il democristiano Michele Zanetti, affinché l’Ospedale Psichiatrico fosse chiuso per sempre. C’erano 1300 ricoverati a Trieste al tempo; in Italia, le persone internate erano più di centomila. Dopo un profondo sforzo sociale, medico, politico e mediatico, nel 1978 venne approvata una legge che predisponeva una riforma strutturale per vietare la reclusione e riconoscere l’inalienabilità dei diritti civili, sociali e politici degli utenti. La norma definiva un protocollo per lo smantellamento di tutti gli ospedali psichiatrici e per l’istituzione di servizi locali e comunitari, così come di reparti psichiatrici negli ospedali generali.

Tuttavia, in questi dibattiti e pratiche, la deistituzionalizzazione non era intesa come esercizio di riforma che avrebbe stabilito una nuova, magari meno violenta, relazione di potere, articolata per esempio nel rapporto di scambio tra nuovi medicinali e servizi aperti. Al contrario, la strategia del movimento psichiatrico radicale italiano degli anni ‘70 fu quella di distruggere l’istituzione in maniera tale che la deistituzionalizzazione del manicomio fosse parte di una più ampia critica alla medicina e alla razionalità dello stato sociale.

 “Con l’ospedale alle spalle, non vale”, mi ha detto di recente Alessandro Saullo, psichiatra della nuova generazione, mentre mi spiegava la logica della distruzione di allora: la salute mentale non può funzionare come pratica di emancipazione finché l’ospedale psichiatrico si mantiene come una minaccia di disciplina per le persone in difficoltà. Il percorso della guarigione non può essere solo un percorso di cura: è un viaggio di emancipazione, di appropriazione dei luoghi e degli oggetti della vita come terreni autonomi per la produzione di nuove relazioni sociali, sia dentro che fuori dall’istituzione, possibile unicamente tramite il sistema del welfare e, allo stesso tempo, all’interno delle dinamiche aperte della vita urbana. Mariagrazia Giannichedda (2015) riassume questo sforzo come la capacità del sistema sanitario pubblico - cioè dello stato- di sostenere la libertà costitutivamente difficile della vita urbana. C’è in ballo il processo di soggettivazione come opposizione alla oggettivazione istituzionale delle persone in difficoltà, ma anche in quanto politica delle cose, ovvero coinvolgimento attivo degli oggetti nel tentativo di arricchire le vite che sono state ridotte a mere esistenze: rompendo le serrature, smantellando le reti di contenzione dei letti, scegliendo un arredamento adatto ai luoghi in cui le persone vivono, e in generale pensando politicamente ai luoghi e agli oggetti della vita.

Questo processo di emancipazione comportò non solo una trasformazione culturale e una lotta politica, ma anche una disobbedienza collettiva alle leggi esistenti e la produzione di una nuova giurisprudenza che riconoscesse i diritti sociali, civili e politici delle persone rinchiuse nel manicomio. E sebbene la legge del 1978 proibisse l’istituzionalizzazione, l’applicazione della riforma è avvenuta in maniera disomogenea per tutti gli anni ‘80 e ‘90. L’ultimo manicomio italiano chiuse ufficialmente nel 1999, ma le pratiche e i protocolli che hanno come obiettivo dichiarato quello di aiutare le persone in difficoltà costituiscono, in buona parte del paese, ancora un problema.

Dopo la morte di Basaglia nel 1980, la radicalità di questi processi fu ricostruita nel lutto e con il forte impegno della sua equipe, e fu tradotta nell’affermazione di una logica urbana della cura. A Trieste, quando il manicomio chiuse nel 1981, la cura era già decentralizzata. I centri in ciascun distretto della città erano aperti ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette: le porte erano aperte; a partire dalla fine degli anni ‘80 furono messe in piedi decine di cooperative sociali grazie anche al supporto del Dipartimento di Salute Mentale che garantiva borse di formazione, budget comunitari e altre forme di sostegno economico. Oggi questa ecologia è fatta di appartamenti, servizi di quartiere, meccanismi di integrazione familiare o di supporto alla vita indipendente delle persone con sofferenza mentale. Partendo dalla creazione dei distretti sanitari all’inizio degli anni duemila e dei programmi locali integrati nel 2005, di cui parlerò più avanti, la diffusione della critica basagliana all’interno della pratica medica generale ha trasformato la salute comunitaria e l’ospedale generale, portando da ultimo a provvedimenti normativi come ad esempio la Legge regionale sulla riforma del sistema sanitario del 2014.

Per capire fino in fondo la complessità dell’ecologia della cura, è anche utile comprendere la configurazione soggettiva dei lavoratori e delle lavoratrici nel sistema sanitario pubblico di Trieste. Si tratta di un mondo piuttosto eterogeneo che può essere sintetizzato come segue: a parte i componenti dell’equipe basagliana degli anni ‘70 (oggi in pensione, ma ancora molto attivi), un primo gruppo, con ruoli dirigenziali, proviene dalla lunga traiettoria del movimento basagliano. Alcuni mantengono un impegno politico dentro il sistema sanitario e di cura, altri invece si concentrano sullo sviluppo di pratiche di cura radicali ma disciplinari, in ambito psichiatrico e non solo. Un secondo gruppo si è formato grazie a carriere strettamente professionali ed è molto distante dall’etica del movimento basagliano. Un terzo, più giovane e più piccolo degli altri due gruppi, è stato attratto a Trieste dall’eredità basagliana, e lavora in servizi sperimentali della salute mentale e di territorio. Allo stesso tempo, le cooperative sociali, sviluppatesi attorno ai temi della cura, coinvolgono oggi centinaia di persone tra assistenti e utenti che hanno spesso un legame affettivo ed etico con il movimento basagliano. La maggior parte della nuova generazione di lavoratori del sistema sanitario (che impiega circa tremila persone) non è cosciente della sua singolarità; molti triestini sono consapevoli dell’eccezionalità del modello di cura locale e dell’eredità basagliana, ma la maggioranza probabilmente no.

La continua reinvenzione basagliana procede su questo terreno incerto, e si costituisce a livello quotidiano tramite l’appropriazione (spesso fallita) degli spazi istituzionali. Il tentativo è quello di mettere fine alla separazione tra gli spazi di cura e la vita sociale, trasferendo la cura fuori dalle istituzioni e in mezzo alla vita della città (la cura dei luoghi, invece de “i luoghi di cura come l’ha definita Ota De Leonardis).

In gioco c’è la fragile possibilità di affermare un diverso senso comune come pratica di attivazione attraverso le istituzioni (un senso comune non nelle sue connotazioni kantiane, ma piuttosto vicino a quello che Christoph Brunner, 2018, chiama “un senso militante”): un senso comune di emancipazione che sia in grado di sostenere una pratica istituente diversa e radicalmente democratica, immersa nelle dinamiche e nelle contraddizioni della vita urbana. E, infine, un senso comune dello stato come luogo di risorse cristallizzate che possono essere utilizzate per sostenere “il comune”, nell’accezione del termine proposta da Hardt e Negri. Dice Franco Rotelli: “E se ricreassimo questi punti di incontro, questa nuova alleanza, tra le istituzioni designate e le persone? Potremmo veramente immaginare che i cittadini si costituiscano come coloro che hanno il diritto alla cura, e che questa cura sia una responsabilità della città: una città che cura ogni suo singolo cittadino e che, facendo così, costituisce la cittadinanza e si costituisce come città” (2019)

Questo senso comune risponde al rischio di rimanere incastrati nelle difficoltà della vita sociale, per riprendere le parole con cui Nic Beuret (2018) ha meravigliosamente parafrasato Donna Haraway. Propone strumenti per spostare le risorse operative dello stato all’interno dei processi ricchi e molteplici della riproduzione sociale. Questo tentativo e il suo fallimento permanente costituiscono il punto di partenza di questo viaggio attraverso le ecologie che curano, nella speranza che i concetti, le materialità, le relazioni e le esperienze aperti dall’esperimento di Trieste possano aiutarci a pensare il presente “nel momento del pericolo” (Benjamin, 2009).


Attraversando l’ecologia della cura

Il filo rosso di questo testo è un’indagine delle ambivalenze di un’ecologia più che istituzionale di pratiche, conoscenze, oggetti, relazioni. Un’ecologia che vive al limite tra la società e lo stato, che prova a connettere tra loro modi ed esperienze differenti di cura istituzionale, ma anche un’ecologia che fa della cura una pratica per stare dentro alle difficoltà, nel mezzo delle complessità della riproduzione sociale.

Questa ecologia si tiene insieme grazie alla giustapposizione di frammenti, concetti, materialità, relazioni ed esperienze, e quindi anche memorie, racconti, animali, oggetti, piante, in quanto mondi sociali che interagiscono tra loro. Comincerò elencando i frammenti che uso in questo testo per schematizzare il sistema di reciprocità e conflitti, mutazioni e composizioni, che è l’ecologia della cura.

Il mio punto di partenza è la soglia, il luogo dove inizio ad esplorare la singolarità di questo esperimento istituzionale di cura; in secondo luogo, svolgo un’analisi delle percezioni come guida operativa nell’invenzione di pratiche istituzionali alternative; nel terzo frammento invece esploro lo spazio della traduzione come pratica per rapportarmi criticamente, dal mio punto di vista, con l’abilità di questa ecologia di proporre una diversa interpretazione della riproduzione istituzionale. Nel quarto, propongo il catalogo come una serie di pratiche, che presento qui come una critica affermativa della tendenza delle istituzioni a cristallizzare le procedure, e una fuga dalla stessa; nel quinto, di conseguenza, analizzo la transizione come pratica per contrastare la cristallizzazione e diretta a far proliferare e mutare le pratiche critiche istituzionali nell’incontro con la città. Nel sesto frammento poi esamino la pratica dell’impresa, con cui intendo qui l’atipico movimento delle cooperative sociali di Trieste, inteso come invenzione del comune situata sul margine fragile e ambiguo che separa il settore pubblico da quello privato; nel settimo, dentro questa ecologia materiale, compost diventa l’allegoria concreta per la ricomposizione della cura a Trieste. Infine, mi occupo della pratica della rivendicazione come un modo per rapportarsi con la cura, all’interno della riproduzione sociale di un mondo danneggiato[2].


La soglia

Il primo punto di accesso alla complessa ecologia di Trieste è un programma specifico che opera all’interno del sistema sanitario generale. Lo attraverserò dialogando con le voci e le pratiche di chi quotidianamente vi lavora; allo stesso modo, i miei pensieri e le mie riflessioni sul programma di cura locale integrata (e sulle ecologie che curano in generale) si fondano su una collaborazione continua con Margherita Bono, che lavora proprio nel Programma Microarea e che negli ultimi anni ha portato avanti progetti di ricerca-azione per ripensarne il funzionamento. La mia analisi si concentra qui su un elemento distintivo delle ecologie che curano, ovvero il modo in cui le cose possono andare diversamente quando le pratiche istituzionali siedono sul margine, o sulla soglia, che separa lo stato dalla società, invece che essere proiettate dall’alto sulla vita sociale.

Esploro queste soglie tracciando delle linee di fuga. Una fuga dalla logica dello stato e verso una logica della cura, da una struttura istituzionale e chiusa verso un sistema urbano e aperto; una pratica fatta di elementi contraddittori che cerca di dar senso non alle realtà circostanti, ma insieme a queste, come ha proposto Isabell Lorey nel suo contributo al progetto Entrare Fuori. Un’istituzione che esce allo scoperto, lasciando i propri territori sicuri e perdendosi (Newey, 2019) nella realtà a volte insensata che sta fuori dalle mura dell’ospedale o della sala visite. Ma anche, una fuga dalla realtà etnografica: utilizzerò una serie di narrative che volano via dai fatti ed esplorano lo spazio dell’immaginazione.

Il Programma Microarea consiste in un insieme di interventi in diversi spazi urbani fragili di Trieste, dove vengono intrecciati programmi di salute, servizi sociali, politiche abitative, allo scopo di coinvolgere le reti sociali locali nel disegno di politiche pubbliche di cura in questi luoghi. Ogni Microarea si prende cura di una popolazione di circa 2000 persone, ma è anche uno spazio: un piccolo appartamento, normalmente al piano terra, dove prendono vita una serie di attività collettive di carattere sociale e culturale, e anche servizi come visite a domicilio, controlli sanitari, eventi di salute pubblica e così via. Lo spazio è aperto cinque o sei giorni alla settimana; il nucleo centrale del gruppo di lavoro della Microarea è composto da un gruppo che va dalle tre alle sei persone e che lavora su diversi programmi; ma anche da volontari che si occupano di una serie di attività che non sono un mandato diretto delle istituzioni pubbliche, e infine un numero variabile di abitanti che organizzano e partecipano alle attività.

Uno degli aspetti più interessanti di questo programma è che la salute non è erogata attraverso regole, doveri, protocolli che inquadrano il cittadino unicamente come l’oggetto a cui vengono fornite risorse, attenzioni, benefici, cioè come un recipiente da riempire. Al contrario, il programma sostiene i cittadini nell’esercizio dei loro diritti, li aiuta a conoscere e usare i dispositivi e le risorse dello stato per ottenere una libertà piena – la stessa difficile libertà, dinamica e conflittuale, della vita urbana descritta da Mariagrazia Giannichedda.

In questo quadro, la storia di cura si costruisce come una narrazione, e si costituisce come uno spazio. Magari riguarda una donna che vive da sola in una piccola casa popolare, con il suo cagnolino. Ogni giorno guarda il mare dal balcone; sta attraversando un periodo difficile, perde piano piano la memoria e l’autonomia. È anziana ed è diventata vedova qualche anno fa. Ha attirato l’attenzione della referente di Microarea grazie alle vecchie signore che raccolgono pettegolezzi passeggiando per il quartiere. L’idea è – con tutte le ambivalenze del caso- che le dicerie possano servire al bene comune. In questa cornice, che si colloca da qualche parte tra il controllo e la cura, le signore hanno scoperto che questa abitante sta perdendo la memoria e sta diventando sempre più fragile.

Così la referente la contatta e inizia ad immaginare quali risorse potrebbero essere attivate per fare fronte alla situazione, sia pensando ai servizi pubblici di welfare da attivare, sia alle reti locali e comunitarie, come per esempio i negozi, da coinvolgere. Per fare questo, la referente si deve confrontare con una serie di ostacoli e norme, autorizzazioni e gerarchie, logiche e principi, per trovare la propria strada con diversi attori, alleati, strumenti, dentro lo stato e dentro la società in senso lato.

L’anziana signora, la chiameremo Feste Puck (Shakespeare, ci ricorda Foucault, 2003, utilizza alcuni attori come punti di accesso ad una prospettiva critica sulla realtà), si rifiuta di avere a che fare con i servizi che la referente le propone, ed è in generale sospettosa nei confronti chiunque lavori nei servizi pubblici. Sostiene di aver visto il suo medico di famiglia rubarle il latte dal frigo; probabilmente lo fa piuttosto spesso, visto che la signora quasi sempre viene alla Microarea per chiedere latte e zucchero.

Ogni giorno la storia si ripete: Feste arriva verso mezzogiorno, quando il pranzo sociale è pronto; chiede un po’ di latte e zucchero e viene invitata ad unirsi al pranzo. Si siede e racconta alla referente come non le permettano mai di far visita al suo ex marito nella clinica dove è in cura. La referente allora le ricorda che lui è morto quasi cinque anni fa; forse Feste dovrebbe andare dal suo medico e chiedergli qualche forma di sostegno permanente. Piange Feste Puck; è consapevole della sua fragilità, ma è spaventata all’idea di essere ospedalizzata. Chi si prenderà cura del suo cane? Potrà mai tornare a casa?

Il suo sospetto sul medico di famiglia che le ruba il latte assume senso tutto d’un tratto. Feste ci propone un’analisi situata dell’ecologia in cui è immersa. Il medico è il custode, o meglio la strettoia che porta verso il sistema di cura nel suo insieme: incarna tutte le ambivalenze contenute nel concetto di essere presi in cura. Normalmente, la cura comporta una limitazione della propria autonomia: trasferirsi in una casa di riposo e perdere il proprio cane, abbandonare la propria piccola casa e quei pochi legami che si hanno nel quartiere. E poi, penso mentre Feste piange ricordandosi di suo marito, non sai se potrai guardare il mare al mattino mentre bevi un caffè, nella casa di riposo. Alla fine forse non è poi così importante se qualcuno di tanto in tanto ti ruba un po’ di zucchero. È ancora casa tua e il tuo quartiere.


Percezioni

Un vécu, un vissuto dalla fine del mondo, per dirla con Francesc Tosquelles (1986, cf. Foucault 2003), Feste Puck è ben consapevole di come le istituzioni tendano a togliere potere al cittadino in rapporto all’organizzazione della cura. Per cambiare questa tendenza, il linguaggio delle istituzioni, “la langue de la tête” come la chiama Tosquelles, deve spostarsi e cominciare un dialogo con “i luoghi delle percezioni”. In questo dialogo “quello che conta non è la testa ma sono i piedi: sapere dove metti i piedi. I piedi sono i grandi interpreti del mondo” (Tosquelles, 2012). In questo senso, l’ecologia della cura si compone nelle percezioni situate create da tutti i piedi che interpretano la città, che la producono in quanto opera comune.

Lefebvre contrappone questo approccio ecologico della percezione all’imposizione ideologica della politica: “Le politiche pubbliche subordinano la realtà ad un sistema strategico di significazioni” che sottraggono a buona parte della popolazione della città la capacità di utilizzare gli spazi pubblici; nonostante ciò, i residenti di un luogo costituiscono la città in quanto ecologia raccogliendo e trasmettendo le proprie percezioni, e componendo così la vita sociale (1996). Consapevole dell’antagonismo tra astrazione istituzionale e pratica sociale, e in continuità con la critica fatta coi piedi da Feste, Federico Rotelli, medico di distretto, spiega la logica della deistituzionalizzazione in un opuscolo scritto con l’obiettivo di difendere il sistema sanitario di Trieste da possibili riforme:

“Quando [compaiono le patologie croniche], la tendenza del sistema sanitario è quella di istituzionalizzare la persona (in una casa di riposo, un ospizio, o una residenza sanitaria). Questo dà forma sostanziale alla dicotomia malattia-esclusione/salute-comunità. Ma far restare la persona a casa, anche se è malata o disabile, permette di sostenere la sua dignità personale e le relazioni affettive, mantenendo al contempo una concezione culturale della malattia e della morte come eventi che sono parte naturale della vita”.

Sebbene Feste Puck e Federico Rotelli abbiano trascorsi diversi, entrambi cercano di istituire politiche situate a partire dalle percezioni, considerando gli effetti concreti che le pratiche istituzionali hanno sulla vita della società (Mitchell, 1999), e agendo di conseguenza.

La Microarea viene fuori dunque come un’ecologia di prossimità, per usare l’espressione di Andrea Ghelfi. Una vicinanza delle politiche della cura all’ecologia aperta della città, dove la pratica della cura è co-creatrice del tessuto urbano. Nel nostro viaggio immaginario, la vita reale intorno a Feste è complicata, e la referente deve fronteggiare situazioni difficili: le risorse che era pronta ad attivare non possono funzionare in questo contesto, considerate le preoccupazioni di Feste, e deve per forza inventarsi qualcos’altro. Comincia invitandola a diverse attività nella Microarea; una volta che si riesce a costruire uno spazio in comune e dopo lunghe trattative, la referente riesce ad ottenere che Feste accetti di farsi vistare, promettendole che non sarà ospedalizzata a meno che non sia strettamente necessario, e garantendole sempre l’ultima parola. L’oggetto dell’accordo non è l’aspetto formale di questa libertà: costituzionalmente Feste avrà sempre il diritto di rifiutare un trattamento medico o sanitario, ma la referente sottolinea questo concetto, dicendole che anche lei, attrice istituzionalmente riconosciuta all’interno dell’ecologia della cura, la sosterrà nell’esercizio di ogni suo diritto, anche quando un medico o un assistente sociale insisterà per farle fare qualcosa ‘per il suo bene’.

In questa ecologia, la realizzazione della cura avviene sulla soglia, al limite tra lo stato e la società, o tra il lavoratore e il cittadino; è un dispositivo che destituisce e istituisce le norme della cura. Monica Ghiretti, referente della Microarea di Ponziana, spiega durante un workshop che in questo programma “non ci sono barriere che limitano l’accesso: il servizio è lì, i luoghi sono lì per essere abitati”. Nel Programma Microarea le frontiere istituzionali sono concretamente messe in discussione attraverso lo sconfinamento di quelle soglie che lo stato costituisce.

Invece di rassegnarsi a un sistema che lascia il cittadino solo di fronte alle potenti forze della burocrazia, il lavoro di Microarea aiuta a creare, intorno e con il cittadino, un’etica collettiva basata sulla reciprocità, la responsabilità, l’inclusione.

La referente chiama i servizi sociali domiciliari, o meglio, una persona specifica che forse saprà trovare una soluzione; è questa persona a metterla in contatto con i giovani del “servizio solidale”, studenti e studentesse delle superiori che ricevono una piccola borsa municipale per partecipare alle reti locali di mutuo appoggio. Incontreranno Feste per capire come poterla aiutare; allo stesso tempo la rete dei negozi del quartiere può consegnarle la spesa, e la referente parla con le persone che gestiscono l’orto lì vicino: ogni settimana porteranno a Feste una cassetta di frutta e verdura e le daranno un’occhiata. La referente stessa le fa visita ogni settimana, e così fanno i ragazzi e le ragazze del servizio solidale. Anche la ‘squadra dei pettegolezzi’ di tanto in tanto le bussa alla porta. A volte si raggiunge una soluzione, e la situazione si stabilizza; altre volte, invece, l’impatto dell’istituzionalizzazione è troppo forte, e lo sforzo per sostenere il diritto alla salute nella vita urbana fallisce.

La storia di Feste Puck mette questo articolo – questa pratica di produzione di conoscenza – di fronte alla prima contraddizione: quella tra affabulazione e verità. Se sono pochi gli studiosi critici che hanno ancora l’obiettivo di trovare la verità, sono ancora meno quelli che si sentirebbero a loro agio se i loro interlocutori (o partecipanti o informatori, come qualcuno li chiama) dicessero loro, come è accaduto a me: “su Trieste racconti delle favole”. Il dubbio sorge: quanto lontano può andare l’immaginazione quando si racconta una storia? Qual è il ruolo dell’affabulazione nella costruzione di un’immaginazione concreta di una pratica sociale e politica? Spero che i frammenti che presento in questo testo ci possano avvicinare alla risposta a queste domande.

La storia immaginaria di Feste Puck potrebbe finire in molti modi, così tanti che potremmo diventare matti cercando di immaginare le possibilità: lo sforzo di sostenere la sua difficile libertà potrebbe avere successo per un periodo più o meno lungo; potrebbe finire per aver bisogno di una casa di cura, oppure, al contrario, verrà organizzato un sistema per sostenerla; o forse verrà ospedalizzata. In questo caso, la Microarea si prenderà cura del suo cagnolino, Billy, (o Billy Boo, come lo ribattezzeranno quelli che se ne prenderanno cura). Chissà, forse Feste Puck diventerà lei stessa Billy Boo, lei diverrà il suo compagno per sfuggire all’istituzionalizzazione. Chi sa?

Quello che conta qui non è tanto quale di queste storie sia vera – tutte potrebbero esserlo – quanto il fatto che ciascuna di esse contenga frammenti di verità contraddittorie e ambivalenti, fatte di perdita, dolore, fragilità. Feste Puck e Billy Boo ci permettono di giocare con la nostra immaginazione: ci raccontano di mondi veri che non sempre sono reali. E qui viene in aiuto la definizione di verità data da Paulo Freire (2018): “la parola vera è quella che cambia il mondo”. La verità dunque è una pratica pedagogica che lotta contro l’astrazione istituzionale, quella che fa della vita un insieme di protocolli. La verità non descrive il mondo com’è, ma prende parte al mondo e lo rifà ogni giorno, da capo. Questa prospettiva ci permette di sfuggire al doppio vincolo: da una parte, un inferno realistico neoliberale e, dall’altra, un’utopia romantica di qualcosa che non è mai accaduto e mai accadrà (cfr. Echeverrìa, 2000). E invece noi, con i piedi nella Microarea, possiamo affermare che l’organizzazione sociale della cura in carico allo stato può fare le cose diversamente: può sostenere una vita diversa nella città. Può immaginare un’ecologia che cura.


Traduzione

La Microarea è dunque la soglia dove può cominciare un processo che incorpori una diversa logica nelle dinamiche dei servizi pubblici; questo accade quando la distribuzione della cura viene deistituzionalizzata, attraverso l’emancipazione di tutte le persone realmente coinvolte, ciascuna dalla propria posizione, nel progetto di cura. Questo incontro tra attori e conoscenze è mediato da uno sforzo di dislocamento, dalle ‘politiche della traduzione’ come cercherò di chiarire più avanti in questo frammento.

Pensare alla cura in quanto ecologia ci permette di riconoscere che “la reciprocità della cura raramente è bilaterale: il tessuto vivo della cura non si mantiene grazie a individui che danno e ricevono una controparte. Ma grazie a una forza collettiva disseminata” (de la Bellacasa, 2017). In senso simile a quello proposto da Maria Puig de la Bellacasa, i processi aperti nell’esperimento della Microarea offuscano il limite artificiale tra la società e lo stato, e contestano il confine che separa gli individui dalla dimensione sociale della malattia e del disagio, o, più precisamente, di tutto ciò che è contenuto nella parola ‘problema’. Quando la logica della soglia viene messa in pratica, il processo di cura smette di riguardare la singola persona e diventa un’ecologia delle cose, delle pratiche, e degli affetti, trasformando così il limite istituzionale in una frontiera aperta.

Per tornare a Isabel Lorey, la pratica del curare insieme “si basa su una accumulazione di conoscenze, sulla contezza delle situazioni sociali delle persone che hanno bisogno di sostegno, ed è per questa ragione che è importante essere consapevoli delle tendenze di controllo e di sorveglianza, e costruire insieme una modalità comune che permetta a ogni persona di riprendere il controllo della propria vita, dentro al quartiere, dentro (nuove) relazioni nel territorio urbano” (2019).

La prossimità della Microarea alla vita di tutti i giorni accompagna l’introduzione di pratiche deistituzionalizzanti negli interstizi dello stato. La stessa storia che abbiamo appena raccontato deve essere dunque inserita all’interno del funzionamento dello stato. Le istituzioni e le procedure entrano in gioco, ma stavolta tradotte all’esterno delle proprie logiche e all’interno della vita sociale.

La referente fa da mediatrice con il Centro di Salute Mentale per pianificare meccanismi di sostegno per Feste; si organizza con il Distretto Sanitario per le visite a domicilio; si accorda con la compagnia elettrica e con l’Azienda Territoriale di Edilizia Residenziale per ottenere un supporto nel pagamento delle bollette e per la soluzione di altri problemi burocratici. L’assemblaggio di programmi, spazi e attori diventa un’ecologia attraverso cui chi lavora nel pubblico e il cittadino si battono insieme per i diritti. Il ruolo del lavoratore pubblico è quello di condividere conoscenze che permettano ai cittadini e alle cittadine di avere pieno accesso ai propri diritti, ma anche quello di scuotere lo stato affinché riconfiguri il funzionamento dell’istituzione in funzione delle singole vite.

La trasformazione della pratica istituzionale in una frontiera aperta, una soglia, è cruciale nella traiettoria basagliana. Lo smantellamento del manicomio negli anni ‘70 ha creato lo spazio per l’affermazione urbana di un sistema di salute mentale che mette continuamente a rischio l’istituzione (e i suoi attori), rompendo le serrature, le recinzioni, le catene, e aprendo centri nei quartieri sulle ventiquattr’ore, creando le cooperative sociali, così come meccanismi di sostegno economico e reti di volontari.

La distruzione del manicomio come luogo, sostiene Franco Basaglia (2005), è il limite che bisogna abitare per produrre un altro spazio, insieme a tutti gli agenti attivi nel progetto di cura e presenti nella città. Non basta abolire formalmente le recinzioni, bisogna distruggerle. La deistituzionalizzazione radicale dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste è stata una pratica di violenza, un’appropriazione del rischio dell’incidente da parte di coloro a cui la capacità di agire, e di prendere responsabilità delle proprie azioni, era stata negata, internata nel regno della “forza delle cose” (Gramsci, 1971).

Ma sfondare il muro del manicomio per costruire luoghi istituzionali sempre aperti non significava solo distruggere l’istituzione psichiatrica. Significava spezzare l’istituzionalizzazione della vita portata avanti dalla salute come sistema, e dalla medicina come sapere. Una volta che i muri sono crollati bisogna affrontare il problema della gestione: come possiamo fare di questa libertà qualcosa di duraturo e sostenibile? Commentando la lettera di dimissioni di Frantz Fanon da un dipartimento di salute mentale algerino, Franco Basaglia afferma che in un momento in cui la rivoluzione politica è “per ovvie ragioni” impossibile, “siamo costretti a gestire un’istituzione che neghiamo” (2005).

Questa ambivalenza riguarda anche la referente che cerca di progettare una ecologia della cura per Feste Puck, ma grazie alla trasformazione istituzionale basagliana si confronta con un sistema mimico invece che rigido. Un sistema che prova a destituirsi e istituirsi ogni giorno, come fosse una forza trasversale e trasformativa: una pratica istituente, nei termini proposti da Gerald Raunig (2009).

Questa tensione tra distruzione e invenzione è uno degli elementi che hanno portato Irene R. Newey, infermiera e ricercatrice di Madrid, a Trieste, in un Dicembre appena iniziato e già preda della Bora e dei mercatini di Natale. Sta aiutando a progettare pratiche di salute comunitaria per il Comune di Madrid, e si trova a Trieste per conoscere le pratiche istituenti che continuano ad accadere qui. Io invece faccio da accompagnatore e traduttore, nel tentativo, non sempre efficace, di rendere la mia ricerca utile agli spazi in cui da tempo sono coinvolto, a volte proponendo concetti, altre costruendo ponti con altri lavoratori e lavoratrici della salute nel resto d’Europa.

In questo modo scopro la traduzione in quanto pratica di ricerca, come metodo che mi permette di ascoltare conversazioni che non avrei altrimenti sentito e, quando interpreto la voce di Irene, di porre domande che non avrei mai immaginato. La traduzione mi permette di sparire come una marionetta ventriloqua nelle narrazioni e nelle conversazioni, di esplorare il regno delle politiche impercettibili che accadono sotto la superficie dei discorsi.

“Ascoltate le storie”, ci dice Franco in una conversazione informale, “e cercate di afferrare come ognuna di queste sia condivisa” quando cristallizza le memorie in una narrativa “e, allo stesso tempo, estremamente differenziata” dal momento che ognuno la guarda dal proprio punto di vista. “A quale storia dobbiamo credere?” chiedo. “A nessuna delle due”, risponde Franco. “Dovremmo provare a trasformare la memoria in una critica del presente invece che in una storia sul passato, e mettere insieme questi sguardi in una sfida comune per tenere aperto il presente e inventare nuovi modi di azione. Anche se continuiamo a fallire”.

Con questo a mente, io e Irene ci perdiamo nel sistema e incontriamo attori e attrici diversi che fanno tanti mestieri. Quelli nel Programma Microarea ci spiegano come vedono le cose dal loro punto di vista, vicino alla vita urbana; i medici e gli amministrativi del Distretto Sanitario, dove la reinvenzione delle istituzioni è sistematica invece che artigianale, ci dicono la loro prospettiva; e così fanno quelli nel pronto soccorso di salute mentale nell’ospedale generale, dove l’inerzia della psichiatria tradizionale tenta in continuazione di chiudere le porte aperte, e di reistituzionalizzare le pratiche di cura in nome dell’urgenza e dell’eccezione.


Catalogo

“Se sei un’infermiera ci capiamo. Non come con questi sociologi!” Scherza (o no?) Federico con Irene. Nelle loro conversazioni non solo emergono conoscenze e competenze condivise, ma soprattutto l’esperienza concreta e comune dei modi di azione e delle logiche che governano l’ecologia della cura. Il Distretto Sanitario, situato nel vecchio ospedale generale ormai quasi completamente smantellato (un altro, più moderno, si trova sulla collina, in un’area meno centrale), è il cuore delle ecologie che curano di Trieste.

Il Distretto Sanitario è il dispositivo attraverso cui il sistema sanitario cerca di spostare la cura dall’ospedale fin dentro le dinamiche urbane, trasferendo le pratiche tecniche e il personale dall’istituzione alla vita della città, e rispondendo così alla sfida di prendere in carico la vita difficile dei cittadini e delle cittadine all’interno di una ecologia plurale della cura. In sostanza il Distretto è un dispositivo che contesta i protocolli come strumenti di organizzazione della cura, e propone un catalogo di pratiche che può essere adattato ad ogni singola situazione.

Ci sono quattro Distretti Sanitari nella città, ciascuno dedicato a una popolazione di circa cinquantamila persone. Il Distretto si coordina con i medici generali (che in Italia hanno un contratto privato con lo stato, sebbene le loro consulenze siano gratuite per tutti i residenti del paese) e fornisce assistenza a domicilio e cure personalizzate attraverso un sistema fatto di persone, oggetti e risorse: infermieri, specialiste, fisioterapisti e altre figure professionali; ambulatori, residenze assistenziali, centri di riabilitazione e, poi, automobili e sale visita; e infine, sovvenzioni, budget destinati, meccanismi di sussidio, gestiti dal Distretto in coordinamento con altre istituzioni.

Pur se all’interno delle gerarchie del sistema sanitario istituzionale, il Distretto Sanitario agisce con l’obiettivo di sovvertire il meccanismo di separazione delle logiche istituzionali dalla vita sociale e di rimediare alla frammentazione interna dell’istituzione stessa. Il dispositivo del Distretto identifica e gestisce le divisioni esistenti tra i diversi attori del sistema, e prova a contestarle e destabilizzarle.

La medicina di territorio irrita le categorie e i presupposti dell’intervento sanitario per due ragioni. Innanzitutto mette la salute primaria a stretto contatto con dinamiche spaziali, invece che comunitarie, ponendo dunque la cura all’interno della riproduzione sociale, senza renderla dipendente da una identità comunitaria. La medicina di territorio contribuisce alla riproduzione sociale in quanto investe risorse pubbliche per sostenere un sistema comune di vita. In secondo luogo, questa pratica contesta attivamente la separazione tra la salute pubblica e la medicina, le quali solo raramente si incontrano e collaborano. La medicina di territorio porta il progetto di cura, e anche i medici e i professionisti della sanità, dentro un’ecologia: un’ecologia in cui diverse risorse, agenti, siti e oggetti vengono mobilitati e adattati a equilibri instabili e temporanei. È un’ecologia fatta di percezioni: di conoscenze e compromessi, di azioni e ritmi.

Federico ci racconta alcune delle attività del Distretto Sanitario (e il giorno successivo Ofelia Altomare renderà la sua descrizione ancora più preziosa): una storia che comincia dal momento in cui l’individuo entra in contatto con l’esperienza totalizzante dell’ospedale, e dunque quando la pratica critica di cura si pone l’obiettivo di disarticolare l’istituzionalizzazione. La medicina di territorio incontra la propria nemesi: l’ospedale generale.

Lo staff del Distretto Sanitario è già presente laddove la cura è necessariamente più intensiva. Infatti alcuni lavoratori seguono i cittadini del proprio Distretto quando sono ricoverati. Visitano la persona in reparto, contattano i medici per seguirne la permanenza in ospedale; discutono della situazione con il resto dello staff del Distretto Sanitario, e anche con i parenti o gli amici dei pazienti stessi. Questa presenza permette loro di mobilitare le risorse che garantiranno la dignità e il diritto alla salute della paziente/cittadina una volta dimessa e di ritorno nel proprio contesto di vita. Il rientro dovrà coinvolgere le risorse sociali ed economiche necessarie al sostegno della persona: installare dispositivi adatti nei luoghi di vita, al fine di spostare, del tutto e in modo sicuro, la pratica della cura dall’istituzione fin dentro la vita sociale. Alla fine, Federico sottolinea quanto sia importante comprendere la specificità di ogni pratica tecnica, ma anche qual è la rete di conoscenze e azioni che possono rendere queste pratiche più efficienti: “Leggere una radiografia o posizionare un pace-maker non prevede infatti una relazione con il paziente e una continuità di rapporto. Un paziente si aspetta che le sue radiografie vengano rapidamente eseguite e correttamente interpretate (...). Al contrario il tuo medico curante (ovvero il medico di famiglia) deve comportarsi in maniera diametralmente opposta, lasciando tecnica e tecnologia allo specialista ma incaricandosi di gestire tutti gli aspetti di una presa in carico”.

Le pratiche del Distretto Sanitario non possono essere normalizzate e ridotte a una rigida sequela di protocolli: non c’è un’unica pratica, ma una serie di pratiche sempre mutevoli che intervengono e si sviluppano in un mondo vivo. Questa permanente dinamica di destabilizzazione e organizzazione sfida la tendenza istituzionale alla segmentazione, affinché la cittadina o il cittadino possano godere maggiormente del proprio ‘diritto alla salute’. Questo non va inteso solo come diritto formalmente riconosciuto, ma soprattutto come esperienza relazionale immersa nella vita sociale e sostenuta dalla azione coestensiva dei vari agenti del sistema di salute. “La cura si declina come esperienza esistenziale per entrambi i poli del binomio curante/curato e, come tale, viene perciò contaminata ed attraversata dalle contraddizioni della normalità” (Signorelli, 1993).

Contraddizioni, di nuovo. Se prima abbiamo incontrato la contraddizione dell’affabulazione, qui sorge un’altra questione. Questa volta la contraddizione nasce dal fatto di appartenere ad un apparato che, se da un lato istituzionalizza, dall’altro può essere un agente radicale e dinamico all’interno dell’ecologia della cura. La questione è come mantenere viva questa tensione, come affermare una ‘cura del passato’ capace di trasformazione: una cura che riconosca come le pratiche istituzionali esistenti non siano qualcosa da distruggere tout-court, ma piuttosto una realtà di fatto con cui confrontarsi per portare avanti la trasformazione. In questo senso, il tentativo è di pensarle come ecologie: che si comportano in un certo modo, ma che possono trasformarsi in organizzazioni sociali e materiali di altro tipo.

Questo ci offre l’occasione di ripensare la pratica istituente come negazione critica dell’istituito e come gestione degli equilibri contingenti della transizione: un territorio sussistenziale (Raunig, 2016). La pratica istituente ambisce a ricomporre la cura attorno e assieme a ognuna delle singolarità coinvolte: la patologia, la vita del cittadino o della cittadina, le sue reti sociali, le risorse politiche, istituzionali e amministrative che girano intorno alla cura, ma anche le conoscenze, le culture, le tecnologie e le soggettività di lavoratori e cittadini coinvolti nella messa in pratica del progetto di cura. In altre parole, per comporre questi agenti materiali, sociali e istituzionali non si deve ordinarli in un certo modo, ma piuttosto pensare alla ricchezza che può nascere dall’incontro.

In un’intervista con il gruppo di ricerca Entrare Fuori, Franco Rotelli ci ha detto: “Mi stupisco sempre quando parlo con un giovane dottore e gli chiedo cosa fa. E lui me lo spiega. Se gli chiedi qualcosa sul contesto in cui compie un certo atto, o non ne sa nulla, o si rifiuta di sapere. Qualche volta ne ha una vaga idea. Ma non c’è nulla di più sovradeterminato di ciò che succede nel campo della salute: grandi assetti istituzionali, grandi interessi economici, corporazioni professionali molto potenti. E poi ci sono i cittadini che dovrebbero contare qualcosa in tutto questo. Ci sono enormi questioni politiche, istituzionali, amministrative e culturali che girano attorno a questo dottore che fa quest’atto. Eppure lui non ne sa nulla. Si preoccupa, nel migliore dei casi, di fare un atto scientificamente corretto, e lì ha cominciato e finito con il suo compito. Noi pensiamo che questo sia profondamente sbagliato” (2019).

Le ecologie che curano costituiscono una logica della cura plurale e molteplice. Sono plurali dal momento che mettono insieme oggetti apparentemente semplici, sempre composti in modo differente a seconda delle loro proprietà singolari, finendo per trovare un equilibrio instabile, temporaneo e parziale tra le diverse competenze, esperienze e contingenze. Questa composizione, questa combinazione, è molteplice nel senso che la pluralità di competenze sarebbe distruttiva se frammentasse, invece che assemblare, l’ecologia della cura. Le responsabilità della cura si sovrappongono, collaborano e entrano in conflitto; l’ecologia della cura è intersezione di mondi, processo di interazione, dove il cambiamento nasce dalla collaborazione e dal conflitto, nell’azione simultanea e intrecciata di molti mondi, ognuno con la propria cultura, popolazione, storia, ma nonostante ciò interdipendenti tra di loro.

Come propone Dimitris Papadopoulos parlando di tecno-scienza, l’ecologia della cura “si pone in continuità con la cura istituita e vice versa, una continuità che si dispiega attraverso mondi disparati e frammentati” (2018). Una rete di possibilità che sorgono nella composizione artigianale di dinamiche di desiderio che sono tecniche, sociali, amministrative, e agiscono intorno alla contingenza della cura dentro a un sistema vivo: un sistema che si prende cura di ogni singola e molteplice parte di se stesso. Una città che cura, un’ecologia che cura. Questa è la sfida che il Distretto Sanitario cerca di organizzare: non imponendo protocolli prescritti, ma arricchendo i cataloghi aperti dell’ecologia della cura.


Transizioni

“Si tratta di garantire il diritto alla salute del cittadino, non di rispondere ai bisogni del paziente”, dice Ofelia. “Non capisco la differenza” risponde Irene. “È una presa in carico”, è lo spunto offerto da Ofelia. E continuano a rimbalzarsi la palla finché non riemerge un linguaggio comune: un linguaggio non più tecnico, ma fatto di etiche, esperienze, politiche, dubbi, sforzi e fallimenti. Ofelia Altomare è la direttrice di uno dei Distretti Sanitari in periferia. È infermiera, la prima nominata per questo incarico. Insieme ad altre persone con ruoli dirigenziali provenienti dalla professione infermieristica (di norma estremamente subordinata e genderizzata nel governo della cura), gioca un ruolo significativo nella contemporanea ecologia della cura di Trieste.

L’incomprensione tra Ofelia e Irene è davvero potente, una lotta condivisa con le questioni in ballo, radicata nell’intenzione di comprendere fino in fondo il significato delle parole, ma soprattutto le materialità in esse contenute. Irene non è solo interessata a capire il significato molare di ‘presa in carico’, ma soprattutto a confrontarsi con il dispiegamento molecolare di questa espressione all’interno delle ambivalenze concrete. La prospettiva molare aprirebbe una conversazione completamente diversa, sulle implicazioni linguistiche e materiali di un rischio paternalista, della possibilità di oggettivazione. Il filo molecolare invece ci porta attraverso assemblaggi concreti, continuità, trasversalità. Una discussione su come queste pratiche rispettino o meno la privacy del paziente, su come questo modo di cura possa diventare abituale per chi nella salute ci lavora, e per i cittadini. Insomma una riflessione concreta su come si possa riorganizzare l’ecologia della cura come tutela e garanzia dei diritti e come esperienza relazionale, invece che come risposta ai bisogni, risposta che conduce rapidamente all’oggettivazione della persona in quanto ‘malattia’.

Ofelia allude innanzitutto alla continuità della cura come modello che permette allo staff del Distretto di costruire la transizione dall’ospedale fino alla casa del paziente, ma ciò che è difficile cogliere è come questo processo avvenga nel concreto. La ‘denominazione’ molare e l’’azione’ molecolare si intrecciano nelle spiegazioni di Ofelia: non c’è un’azione esemplare, perché queste si danno nelle contingenze e ogni atto è sempre produzione singolare. Ciononostante queste azioni debbono essere enunciate assertivamente, essere affermate e costituite, anche se verranno poi inevitabilmente manipolate a seconda di ogni situazione. È un catalogo, non un protocollo.

Ci racconta di come stanno gestendo una situazione proprio in quel momento. Qualcuno è stato ricoverato, e dopo che gli assistenti domiciliari hanno visitato l’appartamento e parlato con la famiglia risulta chiaro che l’attenzione medica da sola non sarebbe né sufficiente, né sostenibile. Il suo racconto risuona con quanto ci aveva detto Federico, ma questa volta i dettagli prendono forma. La questione è come mettere insieme le persone, coordinare le loro azioni, organizzare i diversi oggetti e soggetti della cura. In altre parole, invece di segmentare la pratica della cura, per esempio chiamando i servizi sociali perché possano farsi carico del proprio pezzetto di competenza, il Distretto Sanitario ambisce a riunire le diverse competenze in una responsabilità comune. Chiama gli assistenti sociali, trova qualcuno che sistemi la casa a seconda dei nuovi bisogni e della dignità rinnovata della persona, aiuta la famiglia a trovare un modo per permettersi che qualcuno si prenda cura dei loro cari. Tutti questi atti separati lavorano per mettere fine alla cura medica come pratica indipendente e univoca, o al più bilaterale: il paziente e il medico, da soli, nello studio medico.

Questo sforzo comune, questa presa comune sull’ecologia della cura, è il risultato di una lunga transizione, che crea, negozia e afferma una pratica istituzionale differente. Se lo spazio del manicomio era uno spazio di violenza e ribellione, il Distretto Sanitario è luogo di rivoluzioni molecolari, dove il tentativo è quello di muoversi dalla competenza alla respons-abilità, come abilità condivisa di dare risposte (Haraway, 2016). Irene chiede come questo possa accadere, come si può cambiare la cultura materiale del lavoro. Come si dispiega concretamente il comune nel progetto di cura?

“Lentamente”, dice Ofelia, e attraverso esperimenti, discussioni e negoziazioni. Franco Rotelli si riferisce a questo processo come alla capacità di rendere egemonica una pratica minore: costruire autonomia all’interno dello stato attraverso una consistenza materiale e aprendo spazi di istituzionalità radicale. Nei rapporti di antagonismo determinati dal capitale, “non possiamo vincere, dobbiamo convincere” (Basaglia 1979).

La possibilità del comune si costituisce qui attraverso il piano tecnico; il politico si riferisce alla dimensione ‘operativa’, che determinerà l’attuazione concreta delle politiche pubbliche. Parole, affermazioni e domande circolano per creare uno spazio di discussione, invece che venire affermate come ordini dall’alto. Si tratta di una egemonia minore, che costituisce, all’interno dell’istituzione, una certa cultura e una certa capacità di agire insieme. Questa pratica minore non si pone in contrasto con un processo maggioritario. Piuttosto ci permette di fare luce sugli effetti dello stato, invece che sulla sua razionalità: come possiamo mettere in pratica politiche pubbliche di emancipazione, assumendo le contraddizioni che stare dentro lo stato porta con sé?

Questa transizione è sempre a rischio, mette in guardia Rotelli, specie se non è sostenuta da un impegno continuo e comune sia verso l’interno, nella pratica istituzionale, che verso l’esterno, nella vita urbana.

Non c’è solo la questione di garantire la deistituzionalizzazione dei pazienti. Ofelia Altomare ci ricorda del suo viaggio personale attraverso la deistituzionalizzazione, in relazione all’interno dell’istituzione. Innanzitutto si tratta di mettersi a rischio quando si porta avanti il progetto di cambiamento (“condividere i nostri dubbi e le nostre sfide, democraticizzare gli spazi di decisione, smontare le gerarchie, soprattutto perché eravamo noi quelli al vertice”); in secondo luogo, bisogna affermare nuove etiche e discuterne l’importanza, non solo in quanto principi, ma soprattutto in termini materiali (“ad esempio, tra le questioni che avevamo sollevato c’erano gli orari degli infermieri: se il cittadino è il centro della cura, non puoi fornire assistenza domiciliare solo dalle 8 alle 14; deve diventare un servizio attivo ventiquattro ore su ventiquattro. Ma questo ha fatto sorgere una serie di questioni su cui abbiamo dovuto negoziare e riorganizzare le pratiche istituzionali”); e terzo, “si tratta di stabilire come ciascun lavoratore partecipi e lavori all’interno del Distretto Sanitario, prendendo in considerazione la sua singola situazione e le sue specifiche conoscenze: una è una madre single; l’altro deve prendersi cura di un parente, e così via; un altro può lavorare in una certa area o sua una certa questione, eccetera eccetera”.

Soprattutto però, i confini dell’istituzione non costituiscono il limite della cura. Piuttosto è vero il contrario: pensare all’ecologia della cura significa affermare uno slancio dispersivo dell’istituzione attraverso la vita urbana, che le richiede di investire risorse pubbliche per sostenere la ricchezza comune della città. La cura ‘del passato’ – ovvero il cambiamento delle pratiche istituzionali esistenti capace di creare dinamiche aperte – è accompagnata da una cura del presente. La cura come esperienza relazionale che va oltre le dinamiche della salute, che partecipa all’interno della città e che, sostenendo il diritto alla salute, sostiene la riproduzione sociale e la vita urbana.


Impresa

Il termine ‘presa’ è utile a capire di cosa stiamo parlando: significa afferrare, stringere, trattenere. Prise in francese. Trattiene il momento e una varietà di possibilità racchiuse nell’esperienza, possibilità che si dispiegano ogni volta in modo diverso. Presa significa avere un catalogo di pratiche e sintonizzarle con la situazione, configurare spazi fatti di contraddizioni e ambivalenze. In questa stretta si tiene insieme una realtà complessa, mettendo in atto uno sforzo collettivo all’interno di una contingenza in cui l’istituzione sanitaria è solo un attore tra tanti, e dove il “continuo ripiegarsi tra loro di privato, pubblico e comune crea una situazione in cui indicare quale tra questi domini sia la forza primaria [...] diventa praticamente impossibile (Papadopoulos, 2018).

La parola che usano a Trieste è im-presa, Impresa Sociale (Rotelli, 1992). Non solo una presa comune, ma anche un’impresa comune. La concezione dell’impresa come avventura e sfida risuona con la concettualizzazione di Susan Leigh Star la quale legge lo sforzo imprenditoriale come pratica comune, affermativa e composita, che si rapporta alle dinamiche istituzionali come all’assemblaggio di una ecologia: insieme di limiti, memorie e pratiche, e dunque complessa sovrapposizione di punti di vista e percezioni. Quest’insieme permette all’istituzione di muoversi all’interno di un equilibrio frantumato, ovvero di agire la riproduzione dell’istituzione stessa come trasformazione permanente, evitando così di essere consumata dalla propria tendenza a separarsi e rendersi autonoma dalla società.

Inventare pratiche istituzionali significa dunque agire all’interno di una istituzione che cambia, consapevoli della deriva che spinge ogni istituzione alla staticità, ma anche alimentando la tensione molecolare che porta l’impresa comune a organizzarsi per rispondere a bisogni e desideri.

A Trieste, l’impresa comune trova fondamento legale in una normativa nazionale del 1991 sulle cooperative sociali, che garantisce supporto economico e vantaggi fiscali alle cooperative in cui almeno il 30% dei soci provengano da quello che viene chiamato lo ‘svantaggio’. Una di queste imprese comuni è la cooperativa Lister, sartoria sociale. Questa è strutturata come uno spazio di riciclo e rivalorizzazione, dove ombrelli rotti, vecchi tessuti, banner ormai superati e altri oggetti possono essere riutilizzati: un’organizzazione volta a garantire l’inclusione di oggetti e soggetti, non solo nella gestione dell’impresa, ma lungo tutto il processo di produzione. Il lavoro è organizzato per permettere di partecipare ad ogni persona, indipendentemente dalla singola diversità funzionale: per esempio, il ritmo della produzione viene regolato per corrispondere alla situazione delle persone, alle loro difficoltà, alle loro ansie. Inoltre, i principi del riciclo, l’attenzione ai luoghi, come anche la qualità estetica diventano strumento per costruire una narrativa intorno agli oggetti abbandonati: la produzione degli oggetti si costituisce come rituale della deistituzionalizzazione, come lo chiama Pino Rosati, che reinventa il ruolo di oggetti e soggetti nella riproduzione sociale.

Situata nei locali dell’ex manicomio, oggi Parco Culturale di San Giovanni, Lister è una realtà artistica, politica, economica e istituzionale, che partecipa nell’impresa comune della cura insieme ad altre cooperative sociali e associazioni. Un’altra è l’Agricola Monte San Pantaleone che invece gestisce alcuni dei parchi più belli di Trieste e i sette cimiteri della città, ognuno per una differente confessione religiosa, come pure il roseto di San Giovanni, uno dei più importanti d’Europa. Ce ne sono altre, di cooperative e associazioni: CLU Basaglia, La Collina, Radio Fragola, Reset, Articolo 32 tra le altre. Un movimento cooperativo, associativo e imprenditoriale che impiega centinaia di persone e incide su poco meno dell’1% della produzione locale.

La prima cooperativa sociale a Trieste è nata nel 1972, come primo atto di smantellamento del manicomio e di restituzione dei diritti civili ed economici alle persone internate. Fu un’invenzione o, in termini basagliani (2005), un machiavelli, per aggirare la legge ed evitare l’internamento forzato. Cominciò da un senso comune: quello di pagare uno stipendio alle persone, invece di imporre loro lavoro gratuito in nome della logica della ergoterapia. Questo permise di garantire ai pazienti un salario e una rappresentanza legale all’interno di una cooperativa, e contribuì alla ricostruzione dei diritti sociali, civili e politici, dentro e oltre il manicomio.

Allo stesso tempo, il movimento delle cooperative costituisce una pratica di salute e cura, perché fare cose vere e utili fa stare bene, come dice Giancarlo Carena, presidente della Cooperativa Sociale Agricola Monte San Pantaleone. Negli anni ‘80 infatti, nuove imprese furono necessarie per ricostruire spazi istituzionali nei luoghi abbandonati del manicomio, per inventare nuove forme di cura non solo contro il ritorno della segregazione, ma anche contro la privatizzazione, l’abbandono e la miseria.

In ballo c’era, e c’è, l’invenzione delle istituzioni come imprese comuni, o imprese che fanno comune, nel mezzo della riproduzione sociale, in mezzo alle difficoltà. Felix Guattari ha descritto l’ascesa delle cooperative sociali a Trieste non solo come apertura della pratica psichiatrica oltre il manicomio, ma anche come inserimento della stessa nella vita urbana e sociale e, dunque, le cooperative come invenzioni “non più artificialmente separate [dalla vita sociale, ma] dirette verso una desegregazione generale”. “Si possono creare strutture psichiatriche leggere nel mezzo del tessuto urbano senza necessariamente lavorare nel campo sociale. A quel punto uno non ha fatto altro che miniaturizzare le vecchie strutture segreganti e, nonostante il tentativo, finirà per interiorizzarle. La pratica che viene sviluppata oggi a Trieste è diversa. Senza negare la specificità dei problemi posti dal disagio mentale, le istituzioni inventate, come le cooperative, riguardano anche altre categorie della popolazione che hanno bisogno di assistenza, come tossicodipendenti, ex detenuti, giovani in difficoltà, etc.” (1984).

Ma, quando questa pratica di emancipazione avviene nella città neoliberale, un’altra contraddizione emerge. In questo dispiegarsi incerto dell’impresa comune all’interno dell’ecologia urbana anche il processo contrario, un-commoning (Papadopoulos, 2018), avviene continuamente e le cooperative sociali ne sono parte. L’impresa comune è immersa nella precarietà, perché i suoi lavoratori e le sue lavoratrici hanno contratti instabili e versano in condizioni difficili. Ed è intrappolata nei processi di privatizzazione della cura, dal momento che le cooperative possono finire per essere lo strumento che permette di esternalizzare i servizi pubblici. Se ci si appropria della pratica imprenditoriale per dispiegare il comune nella vita della città, bisogna prendere le precauzioni necessarie per assicurarsi che questa non diventi il punto di partenza di un processo di privatizzazione. L’impresa comune deve pensarsi invece come presidio di pratiche e di valori, in uno spazio sociale aperto. Una dimostrazione concreta del comune contro quei processi che, spinti da interessi economici privati, possono finire per annientare l’ecologia che cura.

In questo processo di annientamento, la privatizzazione raggiunge il proprio significato più pieno, in quanto processo biopolitico e micropolitico. Priva ogni persona della capacità di godere del bene comune, rendendo la cura una merce esclusiva ripartita in nome della scarsità. Allo stesso tempo, la privatizzazione delle pratiche distrugge la responsabilità sociale coinvolta nella cura e la rende una questione fatta esclusivamente di competenze e consumo, imponendo una logica lineare di ‘scelta’ in quelli che sono gli spazi sempre asimmetrici della cura (Mol, 2008).

In questo senso, il movimento delle cooperative sociali può essere uno spazio in grado di contrastare la crescente privatizzazione della cura e di aprirne nuove forme pubbliche. Ma questo accade soltanto restando all’interno delle difficoltà della riproduzione sociale; non separando il progetto di cura dall’ecologia della città, ma piuttosto immergendo l’impresa della cura nelle lotte urbane.

Questa tensione tra impresa e comune rischia continuamente di infrangersi in un senso o nell’altro: in quanto impresa, preda delle logiche di accelerazione del mercato che espellono le singolarità in nome della competizione economica; o invece come istituzione, ritornando alla logica entropica che tende ad organizzare la cura intorno all’efficienza interna dell’istituzione stessa, invece che nella difficile efficacia del progetto di cura. Ma questa tensione produttiva della trasformazione sociale può essere sostenuta solo attraverso la creazione di programmi istituzionali trasversali, dove le risorse pubbliche sostengano la libertà difficile di persone che attraversano un momento complicato, ma sempre all’interno e insieme alla vita sociale della città.

L’ecologia della cura può trovare il proprio terreno più fertile lungo i confini dove si incontrano mondi diversi: non solo rompendo la separazione tra le diverse parti dell’assemblaggio istituzionale o la divisione tra lo stato e la società, ma soprattutto affermando il protagonismo della vita sociale nella impresa comune della cura.


Compost

“Alzati e vai dall’altra parte della scrivania. Esci dall’ufficio, respira l’aria fresca della città”. Giardiniere, infermiere psichiatrico, artista, da tempo nel mondo della cooperazione, e presidente della Confederazione degli Artigiani di Trieste, Giancarlo Carena spesso è teatrale quando prova a spiegare la singolarità del movimento delle cooperative sociali nella sua città. Comincia adattando la narrazione alle percezioni di chi lo ascolta: ti fa accomodare nel viaggio analitico che state per intraprendere. “Come può un luogo dove sono successe cose così orribili nel passato essere oggi uno spazio dove prendono forma dei progetti così belli?” mi ha chiesto la prima volta che ci siamo incontrati, nel 2014, mentre camminavamo nei giardini in fiore dell’ex manicomio.

Una volta aperto il manicomio è diventato prima parte della città, poi un parco: vive al limite tra la gestione e il rifiuto, tra l’istituzione e la società, tra la natura e la città. L’ecologia che cura è uno spazio di composizione e espressione, una pratica di sensibilità e trasformazione dentro i circuiti di produzione e accumulazione propri del capitalismo; vive dentro la pericolosa tensione creata dalle dinamiche capitalistiche, che addomesticano la natura per trarne profitto. L’impresa comune, come pratica, affronta i problemi legati alla cura e alla salute dentro (e contro) queste dinamiche, invece di chiamarsene fuori.

“La cura è troppo importante perché la si abbandoni al riduzionismo dell’etica egemonica. Pensare all’interno del mondo implica rendersi conto del fatto che contribuiamo al perdurare dei valori dominanti, e che non basta rintanarsi nella posizione sicura di un soggetto esterno e illuminato che pretende di saperne sempre di più” (de la Bellacasa, 2017). Questo significa che le pratiche dell’utopia possono essere messe in discussione, dis/assemblate e, come direbbe Basaglia (2005), immerse nella realtà.

In questo senso, Le ecologie che curano ha lo scopo di operare come un punto d’accesso concettuale per una critica istituzionale che sia capace di riconfigurare le pratiche di cura e salute nel ‘contemporaneo’, inteso come limite insicuro della modernità. È una macchina astratta, che agisce attraverso concetti che possano produrre un sapere coinvolto nella trasformazione sociale (e, si spera, utile a quest’ultima). Nel far ciò, l’analisi materiale dell’ecologia si intreccia con l’etica di chi lì dentro ci lavora, e lo fa incrociando l’analisi istituzionale e l’inchiesta soggettiva. La pratica di ricerca prova a tenere insieme l’analisi dell’ecologia e la proposta diagrammatica di un’azione: apre un dialogo tra i segni e le cose che compongono l’ecologia per fare della critica un programma. In questa macchina, il molare e il molecolare si intersecano continuamente. Le trame della cura sono analizzate come un sistema di valori e significati, come razionalità di governance, ma devono anche essere interpretate come portatrici di una serie di possibilità laterali, da rimettere in gioco per inventare forme istituzionali che sostengano un’ecologia di cura distribuita, in un presente ogni giorno più precario.

Mentre mi perdo in queste riflessioni sul mio testo, Giancarlo sta disegnando sulla tovaglietta di carta de Il Posto delle Fragole, uno dei vari ristoranti della cooperativa sociale La Collina e il primo spazio pubblico aperto a San Giovanni nel 1973, e ai tempi gestito dalle persone internate nel manicomio. Ci sta spiegando le tre utopie contraddittorie che sono state messe in atto in questo luogo e come esse, ancora oggi, sopravvivano. La prima utopia, quando Trieste faceva parte dell’Impero Austroungarico nel 1907, avvenne nell’ambito dell’imponente investimento pubblico dell’Impero nelle sue quattro principali metropoli per sostenere una nuova concezione della salute mentale basata non sulla punizione, ma sulla costruzione di una comunità separata e serena. Nonostante ciò, in questa prima utopia la bellezza e la tranquillità vennero rappresentate attraverso l’idealismo, la normalità e la disciplina: in definitiva un’utopia di violenza e segregazione.

La seconda utopia nacque a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70. Quando Franco Basaglia chiuse il manicomio nel 1979, disse: “l’unica cosa da fare qui è buttare il sale, perché non possa crescere nulla, mai più”. La distruzione non era solo una metafora; era una pratica concreta. Per porre fine alla violenza, i dottori diedero agli ex internati gli strumenti per distruggere le recinzioni e li sostennero nel loro esodo dal manicomio verso la città, attraverso una pratica istituzionale e militante che comprendeva azioni dirette e occupazioni. Questa seconda utopia si è fondata sulla distruzione e sulla liberazione.

 “Abbiamo disubbidito”, dice spesso Franco Rotelli. La terza utopia è il parco di oggi, che cresce negli stessi luoghi (ancora pubblici) del giardino terapeutico austroungarico, dove la terra, cosparsa di sale durante l’utopia della distruzione, ha nutrito, a partire dagli anni ‘80, una foresta di contaminazioni incrociate, di pratiche instabili, a volte nascoste, quasi sempre informali: rave, performance, occupazioni. La terza utopia non è una rappresentazione o una metafora, è piuttosto un’allegoria. Il parco è un simbolo, di cura e diversità, e allo stesso tempo un luogo materiale di benessere. Non è un’esagerazione dire che la morfologia stessa del parco ha messo insieme culture e generazioni e ha integrato la vita culturale e l’impresa economica della città in quello che fu una volta il manicomio.

In questo senso, la composizione della capacità di agire e del percorso di emancipazione risuona con le riflessioni del marxismo autonomo italiano sul termine composizione di classe: una metafora mutuata dalla composizione chimica degli elementi per rappresentare la capacità autonoma di analisi e organizzazione dei subalterni.

Ma la differenza sta qui. L’ecologia che cura è forse come la composizione di classe, ma è, in se stessa, compost: fa crescere le cose. Il parco è una pluralità di siti e una molteplicità di percezioni composti nel processo di cura: è un simbolo, ma al contempo uno luogo materiale. È combinazione di agenti: l’università, le cooperative, il sistema sanitario, i servizi pubblici; il terreno, gli utenti, gli studenti, i lavoratori; ed è anche un moltiplicatore di relazioni: contratti, conversazioni, concerti, grida, risate. Un parco fatto di rose, terra, cesoie, memorie, giardinieri, amanti. L’ecologia che cura è dunque un compost di materia organica che rivendica la cura e allo stesso tempo costruisce, in comune, la città.


Rivendicazioni

Il parco rivendica la cura nello stesso luogo dove il manicomio aveva imposto una pratica di contenzione. Utilizzerò rivendicazioni qui nello sforzo di esplorare le stesse tensioni affrontate da Maria Puig de la Bellacasa quando pone le ambivalenze al centro del proprio lavoro sulla cura: “Rivendicare significa spesso riappropriarsi di un terreno tossico, un campo di dominazione, per renderlo capace di dare nutrimento; semi di trasformazione che vorremmo piantare […] coscienti dei veleni presenti nel terreno che abitiamo, invece di aspettarci di trovare un’alternativa esterna, immune alle difficoltà, un equilibrio finale – o una critica definitiva”. “Rivendicare la cura significa ancorarla a un coinvolgimento concreto con le condizioni materiali e situate che mettono in luce le tensioni [del reale].” (2017)

In questa ecologia della cura, rifiutare un certo modo di organizzazione diventa possibile solo purché se ne inventi un altro. Questo significa affermare la sostenibilità, la resilienza e la durabilità come vettori di un’altra logica di cura. Distruggere il manicomio e, allo stesso tempo, “riaffermare il diritto di asilo come diritto fondamentale della persona in un momento di difficoltà” era ed è uno dei principi fondamentali della rivoluzione basagliana, come mi ha spiegato Giovanna Del Giudice durante la nostra prima conversazione nel 2014.

Nella pratica e nella concettualizzazione di Giovanna (2015,2019) la cura del passato e del presente è sempre il limite della cura ‘del futuro’: la distruzione del manicomio e la trasformazione dell’istituzione devono sempre avvenire in maniera continua e simultanea. Ogni giorno lavoriamo per smantellare l’entropia istituzionale e la mentalità opportunistica della cura in quanto controllo, ma per far ciò dobbiamo incessantemente inventare nuovi modi di organizzare la cura, come pratica di incontro, permeabilità e incrocio culturale. Una pratica di permacultura sociale, come la definisce Starhawk nel suo tentativo di tradurre la pratica ecologica della permacultura in uno strumento di azione politica.

Dimitris Papadopoulus propone il processo del far comune come creazione di infrastrutture generose. Nelle pratiche tecno-scientifiche, racconta, “quello che conta in primo luogo come invenzione non è il successo del singolo esperimento, che rende coerente la pratica scientifico sperimentale tradizionale (sebbene questo possa, a volte, essere un aspetto presente); piuttosto, si tratta di una forma di sperimentazione diffusa: potere di invenzione distribuito. Se è mai esistita una scienza che fosse il risultato degli esperimenti, questa capacità di invenzione oggi è diffusa nella società e nelle materie” (2018). L’ecologia della cura è immersa in questa invenzione dinamica: è più che sociale, più che un’impresa; è più che istituzionale, più che personale; è mobile e diffusa, e tuttavia persiste.

Per Papadopoulos, impegno, accessibilità, coinvolgimento (parole che risuonano con reciprocità, inclusione, responsabilità, che abbiamo incontrato nell’analisi della Microarea all’inizio di questa deriva) si presentano insieme, all’interno dell’infrastruttura: e rendono possibile un’ecologia che sfidi costantemente l’entropia istituzionale, che trasformi la vita urbana e che sostenga l’emancipazione degli agenti che costruiscono la città. Queste infrastrutture generose “sono autonomia resa duratura: spazi trasparenti, inavvertiti, ma che incorporano sempre la pratica politica al proprio funzionamento. Le infrastrutture permettono ai movimenti più che sociali di politicizzare la pratica ontologica, pur in assenza di consenso […] senza però che ci sia bisogno di ricominciare ogni volta da capo” (2018).

Far comune diventa una pratica situata in una relazionalità non sovrana: crea uno spazio di instabilità e contraddizione, dove la politica del comune diventa una pratica attraverso cui la società può occupare davvero “la contingenza di una situazione non sovrana” (Berlant, 2016) invece di risolvere le ambivalenze (o, di nuovo, le contraddizioni) attraverso l’affermazione di una nuova sovranità, una che esista sempre sulle spalle di qualcun altro.

Compost per il futuro, lungo il margine del presente, il roseto è il simbolo materiale dell’utopia come esiste nella realtà: un tentativo fallito, e continuamente rinnovato. “[Abbiamo cinquemila rose], ma mancano cinquemila rose e per me sono il segno della città ancora incerta, la cifra del possibile, non inverata la pienezza della città vera che volevamo per noi e per i folli, fratelli e sorelle dolenti con cui abbiamo fatto un lungo cammino che ci ha portato lontano ma non fin dove speravamo di arrivare (molto più in là comunque di quel che lor signori immaginava). La rosa che non c’è chiama un tempo altro, una generazione altra, una nuova fatica, una nuova energia, un nuovo amore. Di cui nessuno può certo, oggi tantomeno oggi, fare profezia: profezia di uomini e donne che vedano, sentano, guardino, tocchino, annusino, adoperino i loro sensi tutti, e ne coltivino i simboli concreti: perché capaci di ascoltare i rumori delle vite (e toccare la terra, e bagnare le rose, e cambiare le cose)” (Rotelli, 2015).  


Verso una conclusione

Trieste è un’ecologia di pratiche dove le conoscenze prendono forma nell’intreccio di registri diversi. È un palinsesto di codici e operazioni in cui differenti discorsi, affetti, e composizioni definiscono un mosaico di voci instabile e plurale. L’ecologia della cura si colloca continuamente lungo il margine del presente: rifugge la narrazione della cura come spazio autonomo e ne afferma un altro che appartiene alla vita sociale e dà forma a una città che cura.

Torna nel parco, mi ha detto una volta Giovanna mentre le raccontavo dove mi stesse portando la mia ricerca. E, di nuovo nel parco, aggiungo un ultimo frammento, un’esperienza che mi ha coinvolto durante il mio periodo a Trieste: Radio Fragola, la radio autonoma e cooperativa nata nei primi anni ‘80 nell’intersezione delle cooperative sociali con il movimento delle radio controculturali. “La Inglobante Universale, ditta leader nella produzione di matrici simboliche, presenta Escuchame [Ascoltami, in spagnolo], un caso sporadico di ingenuità altrui.”

Ogni settimana con queste parole Margherita Antivulgaris apre uno spazio di immaginazione e discussione in cui differenti agenti partecipano nella creazione di un senso comune dell’ascolto, dove le ambivalenze di una realtà plurale non vengono risolte attraverso la linearità dei discorsi, ma piuttosto esplodono in una molteplice ecologia della cura. Escuchame è un’ecologia cosmicomica di voci che provengono da luoghi diversi della salute mentale e della città, e che si incontrano nel parco ogni venerdì, alle cinque e mezza.

A Escuchame, la radio racconta ogni volta, “le voci s’incastrano in nuclei fumanti di materia sonora, dove i significati si svincolano dagli oggetti nella folle certezza dell’eloquenza, senza raggiungere la propria finalità”. Un microfono capace di creare mondi attraverso espressioni intime; capace di incidere sui modi di esistenza dei corpi; di sfidare i pregiudizi e i ruoli che anche le istituzioni distribuite e emancipatrici di Trieste tendono a riprodurre. Le voci alla radio, separate dalle identità stigmatizzate dei corpi, ci restituiscono un palinsesto di espressioni in cui i confini tra la devianza e la normalità vengono disfatti dalle onde sonore.

Escuchame segue le proprie regole e i propri rituali, istituendo uno spazio di resilienza dove ogni modo singolare di esistere può trovare una consistenza contingente, una normalità incerta. Il Matematico Ferdinando ripete le sue domande sulla genealogia delle famiglie, settimana dopo settimana; l’artista dell’immaginario Diego Porporati legge la sua Breve Cronaca del Tempo in Ventiquattro Capitoli, senza mai andare oltre il terzo: la storia del vino. Il Titolare Ignoto dissolve al mixer la sigla di chiusura. Sono le sei e mezza.

Poi il rituale di cura continua: una bibita frizzante alle macchinette nel corridoio di quello che una volta era il padiglione dei pazienti tranquilli. A mano a mano, ognuno aggiunge un gesto al protocollo dei saluti: la procedura dura per un periodo di tempo indeterminato, raccogliendo una composizione di frammenti e storie che evolve, cresce, e sembra ripetersi senza fine, finché le voci del programma riprendono la loro forma concreta, di nuovo corpi nel crepuscolo che avvolge il parco.

Incastrata nelle difficoltà, l’ecologia della cura prende forma come insieme di materialità, gesti, memorie, attraverso il parco e dentro i corpi, le piante, gli artefatti, lungo e insieme alle relazioni sociali e istituzionali. Emerge come dinamica interdipendente di intrusione e percezione, transizione e ripetizione, rifiuto e invenzione, come composizione e insistenza che giocano con le materie e le relazioni che costituiscono la vita sociale, e con le intersezioni tra singolarità parziali e parziali comunanze, segnate dalle loro fitte specificità: a volte immerse nelle contraddizioni del campo istituzionale, a volte perse in un momento di fragilità e libertà.

L’immaginazione può essere uno spazio per comporre questa ecologia della cura, attraverso contraddizioni, ambivalenze, o discontinuità. L’immaginazione come materializzazione di mondi plurali. Soglie, percezioni, traduzioni, cataloghi, transizioni, imprese, compost, rivendicazioni, sono solo otto storie per raccontare la mia deriva dentro questa ecologia. Un’affabulazione della cura che spero possa contribuire a pensare pratiche sociali di emancipazione e riproduzione, capaci di contribuire, in un momento pericoloso come quello che oggi viviamo, a rendere la vita sostenibile in questo mondo danneggiato.


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[1] Ndt: In spagnolo, l’espressione coniata cui-dadania è il risultato della crasi tra i due termini ciudadanía (cittadinanza) e
cuidado (cura)

[2] Ho fatto parte dell’ecologia della cura di Trieste per molti anni e attraverso ruoli diversi. Sono arrivato la prima volta nel 2014 come ricercatore del Ministero della Salute Pubblica della Repubblica dell’Ecuador, e ho partecipato ad un workshop intensivo insieme ad una delegazione di psichiatri dalla Cina. In quell’occasione incontrai Giovanna Del Giudice; tornai qualche mese dopo, nel 2015, e cominciai a collaborare con Giovanna e con la Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo “Franco Basaglia”; nel frattempo, ho anche organizzato una serie di dibattiti e workshop a Barcellona, con Radio Nikosia. Nel 2016 ho trascorso a Trieste la primavera e le prime settimane estive, con il supporto finanziario della Fondazione Rosa Luxemburg e sotto la guida di Isabell Lorey, sviluppando una cornice di ricerca azione al Centro di Salute Mentale di Domio, con il Gruppo di Peer Support e la salute “in comune” nei quartieri di Ponziana e Zindis. Successivamente, in collaborazione con Marta Malo, Marta Perez, e Irene R. Newey, abbiamo dato vita a Entrare Fuori, un dialogo tra lavoratori e lavoratrici del settore sociale, della cura, e della salute mentale e attivisti e attiviste europei, realizzato in collaborazione con l’Azienda Sanitaria di Trieste e il Comune di Madrid, e con il sostegno anche economico del Museo Nazionale Centro delle Arti Reina Sofia. Allo stesso tempo, con un gruppo di lavoratori e lavoratrici di Trieste tra cui Margherita Bono, Paola Comuzzi, Michela Degrassi, Sari Massiotta, Monica Ghiretti, Federico Rotelli, Federica Sardiello, Alfio Stefanich e Davide Vidrih e con il sostegno della Kent Law School, dell’Università del Kent, abbiamo iniziato a collaborare con il programma di salute comunitaria Well Communities di Londra. Negli ultimi anni poi sono state realizzate delle collaborazioni più piccole con la Cooperativa Sociale La Collina, Radio Fragola Gorizia, il Dipartimento di Salute Mentale sia di Trieste che di Gorizia, con la Cooperativa Sociale Agricola Monte San Pantaleone, e con molti altri individui e gruppi a Trieste e nei suoi dintorni. I miei pensieri sull’ecologia della cura hanno preso forma dentro questi spazi di discussione, insieme ad altre pratiche, punti di vista, domande che nascevano nell’ambito di gruppi come Entrare Fuori in Spagna, il Progetto Vessel a Bari, il Radical Psychiatry Network a Nottingham, In Spite of Everything ad Atene, il Raum Station a Zurigo, la Casa Azul a Malaga, la Kent Law School, la School of Political Sciences a Kassel, la School of Art di Zurigo, e la School of Managment a Leicester (così come altre conferenze accademiche): di certo non sono state le istituzioni ma le persone che le abitavano a dare forma a queste riflessioni, e indispensabili sono state anche le numerose chiacchierate, le notti e gli incontri. Martha Schulman è stata non solo l’editrice di questo testo, ma anche un’amica durante le conversazioni fatte nella revisione, e sono estremamente grato a lei e al suo pungente umorismo. Infine, le discussioni con Alisea Neroni, che ha tradotto questo testo in italiano, sono state un felice incontro che mi ha permesso di rileggere e ripensare queste pagine, quasi straniero, nella mia lingua materna. Questa serie di pratiche, configurazioni e traiettorie costituisce il terreno disordinato che cerco di sintetizzare qui come mio punto di vista su un lavoro complesso, aperto e collettivo che sono le ecologie che curano a Trieste. Fortunatamente per me, incontrare Giovanna nel 2014 ha significato avere a che fare con una serie di voci e aprire uno spazio di conversazione molteplice, critico e plurale, con diverse persone e in luoghi diversi. Sebbene Adam, i due Alessandro, Andrea, Beatrice, Carol, Claudia, Davide, Ecaterina, Elena, Elisa, i due Fabio, Frida, Grazia, Guillermo, Lara, Letizia, Marco, Mario, Michela, Naomi, Nicole, Patricia, Patrick, Pina, Sandro, Valentina e Yulia non siano nominati in queste pagine, sono stati tutti miei interlocutori e interlocutrici in questi anni e hanno fatto da cornice al mio impegno concettuale e materiale con l’ecologia della cura, e hanno reso la mia vita a Trieste dolce e piacevole.